Febbraio 2012. A Denver sta nevicando. Sono a un comizio di Rick Santorum alla compagnia elettrica cittadina e in sala ci sono almeno 150 persone. Sono nel pieno delle primarie americane. Ho appena conosciuto Tom, un italo-americano che gestisce la campagna elettorale di Santorum in Colorado. Gli chiedo di poter intervistare l’ex senatore. “Dopo vediamo” – mi risponde.

Alla fine del comizio Santorum stringe centinaia di mani e scatta decine di fotografie, Tom mi passa accanto, mi prende per un braccio e punta l’ex senatore di origine italiana. “He is a paisà” – gli dice. Rick Santorum sorride, mi stringe la mano e dà l’ok per un’intervista. Solamente un’ora prima ero su un marciapiede nel pieno di una bufera di neve, con pochi soldi in tasca e non riuscivo a chiamare un taxi. Avevo praticamente deciso di lasciar perdere il comizio e tornare a casa.

Un’ora dopo intervistavo il candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Negli ultimi tre mesi ho attraversato in pullman, treno, autostop e qualche volta in aereo tredici stati americani per raccontare le primarie repubblicane, la grande corsa da cui uscirà lo sfidante di Barack Obama alle elezioni del 6 novembre. All’inizio del viaggio avevo l’impressione che fosse un’idea folle. Effettivamente lo era.

Facciamo un passo indietro. Mi chiamo Andrea, ho 29 anni e faccio il giornalista negli Stati Uniti. Tre mesi fa avevo molti dubbi sulla mia professione, ora invece mi è tornata la passione per questo lavoro. Mi piace molto raccontare storie, ma non ce la facevo più a passare tutti i giorni dietro una scrivania. Per questo motivo un anno fa mi sono licenziato dalla redazione newyorchese di America24.

Forse fare il giornalista non era più quello che volevo. Ho preso un aereo e sono tornato in Italia. È stato uno dei periodi più difficili della mia vita. Ero a Perugia, non sapevo cosa fare di me stesso e avevo perso l’entusiasmo per il mio lavoro. In quei mesi però ho superato l’esame da giornalista professionista e nella mia testa è scattato qualcosa, i miei pensieri hanno cominciato a riprendere velocità.

Forse è stata semplicemente una maggiore fiducia, ma in pochi giorni ero di nuovo in America, un paese a cui sono estremamente riconoscente, che mi ha insegnato a credere in me stesso e in quello che faccio. È stato là che ho capito che siamo noi gli artefici del nostro futuro, nessun altro.

Mi sono trasferito a New York tre anni fa per uno stage, non avevo soldi, non potevo permettermi una casa e dormivo da amici e conoscenti, sui divani letto o sui pavimenti. Spesso amici e colleghi mi offrivano da mangiare o una birra. Per qualche tempo sono andato in ufficio la mattina con una borsa, dove mettevo un ricambio e lo spazzolino da denti. Durante la giornata lavoravo e cercavo qualcuno disposto ad ospitarmi per una notte o due. Non mi importava. Il mio obiettivo era raccontare l’America.

Dopo qualche mese le cose sono cambiate, sono stato assunto e ho cominciato a guadagnare i primi soldi. Ho ancora la foto del mio primo assegno, erano 1.400 dollari.

Dopo quasi due anni però ho cominciato a soffocare. Me ne sono andato e ho staccato la spina. Era il 20 aprile 2011.

Sono tornato a New York un venerdì sera di inizio ottobre, di nuovo al punto di partenza, con qualche risparmio, ma senza una casa né un lavoro. Soprattutto senza contatti. Per fortuna mi ospita un caro amico. Il lunedì mattina vado alla New York Public Library e comincio a mandare proposte ai contatti raccolti dalle pagine degli esteri e sulle gerenze dei giornali, che avevo comprato in abbondanza durante i cinque mesi passati in Italia.

Dopo due giorni inizio a pubblicare sul Riformista e sul sito del Corriere della Sera. Poi arrivano il Manifesto, Libero, Linkiesta, Il Post e Io Donna. Provo a raccontate l’America con i miei occhi. A dicembre faccio la proposta decisiva a Libero: vi interessa se vado a seguire le primarie dal vivo?L’idea a loro piace, ma non possono pagarmi le spese di viaggio. Decido di andare lo stesso.

Compro un biglietto da 400 dollari e il pomeriggio del primo gennaio atterro a Des Moines. Alloggio in un motel da 40 dollari a notte vicino all’aeroporto, ogni mattina prendo un taxi e vado al Marriott, dove sono di base tutti i giornalisti. Per fortuna i colleghi italiani sono disponibilissimi, mi aiutano e mi portano in giro a vedere i comizi e i caucus repubblicani.

È un’esperienza fantastica, ma alla fine mi costa 700 dollari e non rientro delle spese. Torno a New York e decido di rinunciare al secondo Stato, il New Hampshire. Proprio mentre assisto in tv ai risultati provenienti dal nordest e alla vittoria di Romney capisco però che in South Carolina e Florida ci voglio andare. Scarto l’opzione motel e mi affido a CouchSurfing. Farò un viaggio unico, per risparmiare.

Il 19 gennaio mi alzo all’alba, vado all’aeroporto di Newark con un trolley e molti dubbi e parto per Charleston, dove mi ospitano due ragazze, Kayleigh e Tatiana. La sera vado al dibattito e sono l’unico giornalista italiano, il giorno dopo salgo su una portaerei per assistere a un comizio di Newt Gingrich. Vado a cena con i miei colleghi, ma quando loro vanno a dormire io devo raggiungere le ragazze in un club. I couchsurfer raramente ti lasciano le chiavi.

Faccio le 5 della mattina e poche ore dopo mi rimetto al lavoro. Nel frattempo ho aperto un blog, dove arrivano subito, e inaspettatamente, centinaia di lettori che cominciano a seguire il mio viaggio con entusiasmo. Io fotografo e racconto tutto quello che vedo, quasi tutti i post li scrivo sull’iPhone mentre sono in giro. Viaggio sui Greyhound e davanti agli occhi mi passa l’America. Vicino a me siedono barboni, immigrati illegali, amish, tossici, pazzi e spacciatori.

Non sono esattamente le stesse persone che incontro ai comizi elettorali. Dopo la Florida butto il biglietto di ritorno per New York e ne compro uno per Las Vegas, poi prendo un pullman attraverso lo Utah per arrivare a Denver, in Colorado. Ho attraversato l’America e quattro stagioni, a Denver nevica e io ho ai piedi le stesse scarpe da barca che indossavo sulla spiaggia di Miami. A Denver dormo a casa di Jeff, che è lontanissima dal centro. In realtà è casa della sua ex ragazza, lui dorme sulla moquette del salotto e mi lascia il divano. La sua ragazza non mi parla neanche, per quanto è furiosa con lui. Si sono lasciati da una settimana.

Come se non bastasse, i taxi si rifiutano di venirti a prendere se non gli dai il numero civico esatto. Vado a mangiare una pizza da Whole Foods e rinuncio al comizio. Manca mezz’ora. Esco, mi incammino verso casa e nella bufera di neve vedo il civico di un concessionario Mercedes. Prendo il telefono e chiamo di nuovo la compagnia di taxi. Sono al 900.

Arrivo al comizio in tempo, inizio a parlare con i sostenitori, ci sono tanti italo-americani. Incontro Tom, è di origine calabrese. È lui, poco dopo, a presentarmi Santorum: He is a paisà.

Due giorni dopo l’articolo esce su Libero, proprio all’indomani della triplice vittoria di Santorum in Colorado, Minnesota e Missouri. Sono felice, ma i soldi sono finiti e torno a New York. In aereo scrivo il post di fine viaggio e mi ritrovo a pensare a un progetto su Kickstarter per finanziare il resto della campagna. Alla fine scelgo Kapipal, un sito italiano, e lancio il mio crowdfunding. Chiedo 2.000 euro in due settimane per aiutarmi con le spese di viaggio. Raggiungo l’obiettivo in meno di due giorni e dopo due settimane sono a 3.543 euro, quasi tutti ricevuti da persone che non conosco. Uno dei miei migliori amici mi dona 500 euro: gli dico che è un pazzo.

In molti mi fanno notare che forse il pazzo sono io. Io che mi sono imbucato a comizi off limits con un accredito vecchio o aspettando che gli agenti della sicurezza si distraessero, che passo le notti sugli autobus Greyhound insieme a tossici, amish e spacciatori, che provo a raccontare tutto quello che vedo e combatto con lo staff di Romney e con i servizi segreti. Io che quando leggo le email e i messaggi entusiasti che mi inviano lettori, finanziatori o amici sono felice. Le persone che seguono il mio viaggio credono in me. “Non mollare” – mi scrivono. “Mi sembra di viaggiare con te.”

Il loro affetto ripaga ogni sforzo. Hanno voglia di sognare, di scoprire l’America o semplicemente di rivederla. Vogliono vedere il mondo, e anche se i giornali non hanno soldi per pagare, tagliano collaboratori e corrispondenze, forse è ancora necessario raccontarlo, questo mondo. Raccontarlo a parole proprie e non tramite articoli di seconda mano. Il mio viaggio è finito, Santorum si è ritirato, Romney ha in mano la nomination. Sono tornato con la consapevolezza che c’è ancora bisogno di questo lavoro, e che io forse sono in grado di farlo. Basta volerlo.

Il mio viaggio fra divani e Greyhound non è la soluzione, c’è una via di mezzo. Basta volerlo.

Che Futuro!, 18 aprile 2012

6 pensieri riguardo “Andrea Marinelli: “Sono il paisà che racconta l’America divano dopo divano”

  1. La chiamano Plantation perché sono quasi tutti schiavi e Platero li fa lavorare come negri senza pagarli un soldo: le voci circolano e lui si è fatto una pessima fama nell’ambiente. Sarà ricordato per questo quando (finalmente!) creperà. La sua morte, lenta e dolorosa, sarà la più grande vittoria per migliaia di giovani….Ci sono vari articoli, anche in Rete, sulle sue malefatte. Sul Barbiere della Sera, per esempio…E’ deplorevole come tratta le giovani generazioni. E lui sempre a galla grazie al lavoro degli altri!

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