«Quasi trent’anni fa, Donald Trump fu convocato dall’editor di Random House Howard Kaminsky nel suo ufficio sulla Fifth Avenue. Kaminsky aveva con sé il la copertina del debutto letterario dell’imprenditore, Trump: The Art of the Deal. Il miliardario ne era felice. “Solo una cosa”, disse. “Per favore scrivete il mio nome molto più grande”». L’aneddoto è di David Remnick, direttore del New Yorker, che ricorda come per decenni l’attuale candidato repubblicano sia stato al centro delle cronache mondane cittadine più pacchiane, e prova a spiegarne il fenomeno. «Già nel 1988 accennò a una candidatura alla Casa Bianca, anche se allora sembrava un’ennesima forma di autopromozione», scrive Remnick. «E ora, eccoci qua. Ha intenzione di comandare le forze armate degli Stati Uniti, proporre legislazioni e prendere le decisioni morali e politiche richieste a un presidente». Ma perché, si chiede, il fenomeno Trump si è dimostrato così forte e inarrestabile? La risposta che si dà il direttore del New Yorker è che il miliardario non è altro che il beneficiario del lungo processo di decadenza intellettuale del partito repubblicano. «Avendo passato anni a corteggiare gli impulsi più basici della cultura politica americana, ora il Gop si ritrova davanti a un destino tragico. Sul quale c’è il nome di Trump scritto a caratteri cubitali».

Corriere della Sera, 7 marzo 2016 (digital edition)

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