N on fosse stato ucciso in un’assolata mattina a Dallas, nel 1963, John Fitzgerald Kennedy avrebbe compiuto oggi 100 anni. Invece è rimasto incastrato nella storia con il volto giovane e il vigore di un quarantenne, mentre i suoi successori Jimmy Carter e George H. W. Bush hanno entrambi superato i 90 anni e si uniranno oggi alle celebrazioni di un centenario che cade proprio nel giorno del Memorial Day, quello in cui l’America rende omaggio ai soldati americani caduti in ogni battaglia, per difendere il proprio Paese. In un’epoca così politicamente divisa, milioni di americani ricorderanno oggi non solo i propri familiari morti in battaglia, ma anche il 35esimo presidente degli Stati Uniti che – scrive Usa Today interpretando come sempre il sentimento popolare della nazione – resta un punto di riferimento globale nonostante fosse il rampollo di una famiglia liberal che ha dominato la vita pubblica per tre decenni. «In parte, gli americani ricordano Kennedy per la sua morte scioccante ad appena 45 anni», scrive il terzo quotidiano americano per diffusione. «Eppure, oltre al dolore per quell’omicidio, c’è il ricordo della speranza e dell’ispirazione che diede agli americani quando, nel 1960, divenne il presidente più giovane ad essere eletto, il primo cattolico e uno dei più commoventi oratori pubblici a essere mai entrato all’Ufficio Ovale».

Le differenze con l’attualità sono notevoli ed evidenziate da giornalisti ed editorialisti di ogni schieramento politico. Non si limitano all’età del presidente in carica: se Kennedy era secondo soltanto a Theodore Roosevelt – che nel 1901 divenne presidente a 42 anni senza però passare da un’elezione, ma sostituendo il defunto McKinley –, a 70 anni Donald Trump è invece il più anziano inquilino nella storia della Casa Bianca. Per vedere le diversità dei due presidenti basta ascoltare le parole delle cerimonie inaugurali: il 20 gennaio 1961 Kennedy pronunciò una delle frasi più celebri della politica americana, consigliando ai cittadini di non domandarsi cosa il Paese avrebbe potuto fare per loro, ma cosa avrebbero loro potuto fare per il Paese. Era una chiamata alla responsabilità patriottica, scrive oggi il Washington Post, che si scontra con il populismo del primo discorso di Trump: le sue parole, 56 anni dopo, «hanno dipinto gli americani come le vittime di un establishment corrotto concentrato più su altri Paesi che sulle ragionevoli richieste di persone legittime».

L’establishment attaccato da Trump era quello, aperto al mondo, creato da quel presidente rimasto in carica neanche tre anni. Invece di chiedere ai propri cittadini di «sostenere qualsiasi onere in nome della libertà», continua il quotidiano della capitale, Trump ha puntato sul sentimento isolazionista dell’America First, sostenendo che il protezionismo «porterà a grande prosperità e forza». Non si tratta di una mera differenza di tono, scrive l’editorialista Charles Lane, «ma del ripudio dell’eredità di Kennedy, che fosse intenzionale oppure no». Proprio contro il protezionismo, infatti, Jfk si batté nel 1962, sostenendo il Trade Expansion Act, una legge che avrebbe abbattuto le tariffe commerciali e che lo stesso presidente definì «la più importante, in campo economico, dai temi dal Piano Marshall». Il Congresso, ricorda il Post, la approvò con quel sostegno bipartisan difficile da rintracciare oggi a Capitol Hill. Di certo, ha affermato mercoledì in un discorso al parlamento statale il governatore del Massachusetts Charlie Baker, citando la stessa frase iconica e patriottica ricordata dal Washington Post, Kennedy sarebbe «deluso dalla volgarità della politica moderna».

Nato a Brookline, Massachusetts, il 29 maggio del 1917 – lo stesso anno in cui l’America, facendo il proprio ingresso nella Prima Guerra Mondiale, confermò la propria potenza globale –, Kennedy divenne un’icona grazie anche alla retorica del futuro, della sfida e del cambiamento, grazie alla presidenza della Nuova Frontiera. Eppure, ricorda E.J. Dionne Jr., senior fellow della Brooking Institution e studioso delle politiche di sinistra, «l’ex presidente era il primo critico del proprio mito». Per questo, scrive, non andrebbe idealizzato, ma ricordato con rispetto e gratitudine: «la sua consapevolezza, la sua dedizione alla scoperta, il suo successo nel condurre le energie della nazione verso un’epoca di speranza sono ancora oggi un regalo per l’America».

Corriere della Sera, 29 maggio 2017

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