(scritto con Andrea Federica de Cesco, illustrazione di Alessandra De Cristofaro)

(AFdC) Mi chiamo Andrea e sono una donna italiana. Puntualmente, quando mi presento a una persona nuova quella ridacchia, per poi aggiungere fra l’imbarazzato e l’ammiccante: «Ma non è un nome da maschio?». E io attacco con la mia solita tiritera: «In realtà in Spagna, in Germania e in molti altri Paesi è un nome femminile. I miei erano spesso all’estero per lavoro…». Ogni volta mi sento in dovere di giustificarmi, manco fosse colpa mia se i miei genitori hanno deciso che il loro primogenito, a prescindere dal sesso, si sarebbe chiamato Andrea. Pigrizia pura, penso io, anche se loro insistono sul fatto che volevano l’effetto sorpresa (e infatti hanno saputo che ero una bambina solo il giorno del parto). Le vecchiette non si facevano alcun problema ad ammonire mia mamma per quella scelta in apparenza eccentrica: «L’è ona tosa, la pò minga ‘vegh on nòmm de mas’c!» («È una femmina, non può avere un nome da maschio!»). A dirla tutta, per evitare che a causa di qualche fraintendimento una volta adulta mi fossi dovuta sottoporre alla visita di leva (allora il servizio militare era obbligatorio per gli uomini), ad Andrea i miei avevano aggiunto Federica. Ma l’ufficiale di stato civile incaricato di iscrivermi all’anagrafe ribaltò le cose, rifiutandosi di registrare una femmina con quello che per molti anni (fino a una sentenza della Corte di Cassazione del 2012) a livello anche legale è stato ritenuto un nome maschile. E così secondo la carta di identità sono Federica Andrea.

(AM) Mi chiamo Andrea e sono un uomo italiano che ha vissuto negli Stati Uniti, e non di rado sono stato scambiato per una donna. Una volta, anni fa, sbarcai da un autobus Greyhound a Topeka, in Kansas, per un reportage sulla Westboro Baptist Church, che più che una chiesa è un gruppo di odiatori con il culto dell’omofobia. Per due giorni avevo parlato al telefono con Fred Phelps Jr, il leader della congregazione, uno degli uomini più disprezzati d’America, che aveva promesso di venirmi a prendere alla stazione. Quando lo vidi arrivare sul marciapiede di Topeka gli andai incontro, ma prima che potessi presentarmi lui mi anticipò. «C’era per caso una signora anziana sull’autobus?», mi chiese. Confuso, risposi di no. Lui mi ringraziò educatamente, si diresse dall’autista dell’autobus e poco dopo tirò il telefono fuori dalla tasca. Squillò il mio. «Andrea, dove sei?», mi chiese, perplesso. «Sono qui davanti a te, ci siamo appena parlati». Lui scoppiò a ridere, mi venne incontro e per giustificarsi disse soltanto: «Scusami, ma ero certo che fossi una donna. E, a giudicare dalla voce bassa, avevo dedotto che fossi una donna anziana». Abbozzai. Come del resto ho fatto decine – o forse centinaia – di volte via email, ogni volta che ho ricevuto una risposta che iniziava con «Dear Mrs. Marinelli». Spesso ho persino evitato di correggere l’interlocutore, giudicando la questione superflua o non necessaria. Altre volte, quando ci tenevo davvero a scongiurare equivoci, mi sono firmato Andrew o Andreas. Eppure Andrea significa «uomo», non dovrebbero esserci grossi dubbi, mi sono continuato a dire per anni.

(AFdC) Nonostante quanto affermano i documenti ufficiali, come dicevo, per tutti sono semplicemente Andrea – il nome con il quale mi hanno sempre chiamato in famiglia. Da piccola qualche volta provavo un’invidia folle per i nomi chiaramente femminili delle mie amichette (Laura, Chiara, Francesca, Giulia, Martina…). Capitava che qualcuno (maschi, per lo più) mi prendesse in giro. Presto avevo imparato a ridere con chi mi derideva: dal momento che non me la prendevo, i miei sbeffeggiatori nel giro di pochi minuti si stancavano e lo scherzo finiva lì. Ma la realtà era che un po’ ci rimanevo male. Desideravo assumere arie da principessa come facevano alcune mie compagne, ma con quel nome lì, un’altezza sopra la media e la voce profonda che mi ritro(va)vo non me la sentivo. Forse è anche per questa ragione che per parecchio tempo mi sono ritrovata a vestire i panni del maschiaccio. Poi sono arrivati gli anni del liceo classico. Il greco antico, da cui Andrea deriva, non lasciava adito a dubbi: aner, gen. andròs, significa «uomo», «maschio». Fine della storia. Paradossalmente è stata proprio la mia professoressa di greco a insegnarmi ad amare il mio nome. Mi chiamava Andreia, che vuol dire «coraggio». Non so quale sia l’origine più corretta. Fatto sta che grazie alla quella geniale insegnante la mia prospettiva è cambiata. Ho iniziato a provare un po’ di orgoglio per quel nome così insolito per una donna, nonostante crescendo mi rendessi conto che molti adulti si divertono con le stesse battutine che fanno sghignazzare i bambini. Spesso durante scambi di email con sconosciuti (ma anche al telefono), i miei interlocutori danno per scontato che stanno parlando con un uomo. Io non mi do per vinta. Ho preso l’abitudine di specificare subito che sono una donna, anche se può suonare un po’ grottesco, e di firmarmi «Andrea Federica» (i miei genitori ci avevano visto lungo…).

(AM) Crescendo in un Paese monoculturale come l’Italia, di domande sul fatto che Andrea fosse un nome da maschio non me ne ero mai poste. Nel 1999, il primo anno per cui esiste il conteggio dell’Istat, il 3,91% dei neonati italiani era stato chiamato come me: quell’anno nacquero ben 10.336 Andrea (il nome più diffuso). E io me li ricordo bene quei favolosi anni Novanta in Italia, quando Andrea era esclusivamente un nome da maschio e quattro undicesimi della mia squadra di calcio, lo storico Penna Ricci di Perugia, portava il mio stesso nome. L’unica eccezione, o per lo meno l’unica che io ricordi, era Andrea Zuckerman, una delle protagoniste di «Beverly Hills 90210», che era appena arrivato su Italia 1: fra bambini, però, ci limitavamo a prenderla in giro per quel nome da uomo. Ci sbagliavamo: negli Stati Uniti, secondo il sito HowManyOfMe.com, oggi esistono 396.195 Andrea e – ebbene sì – il 97,52% sono donne. Ad essere onesti anche in Italia, già nel 1999, erano nate 203 Andrea, ma erano lo 0,08% del totale. Nel 2016 sono aumentate leggermente – 230, lo 0,10% – mentre i maschi sono calati nettamente (5.577) pur restando il 2,32% dei nuovi nati. Chissà che fra qualche decennio non ci sarà un sorpasso!

(AFdC e AM) Quel che è certo è che il nostro nome racconta già molto di noi stessi. Uno studio dell’American Psychological Association, infatti, sostiene che molto spesso le persone sono capaci di indovinare il nome di uno sconosciuto soltanto guardandolo in faccia. Film, libri o serie tv, affermano i ricercatori, creano degli stereotipi culturali che poi vengono inconsciamente attribuiti ai nomi. «Sapevamo già che il genere sessuale ha un forte impatto sociale, ma ora sappiamo che anche il nostro nome – che è scelto per noi da altri e non è biologico – può influenzare le nostre interazioni con la società», ha spiegato il dottor Yonat Zwebner, della Hebrew University di Gerusalemme. Insomma, come cani e padroni finiscono per assomigliarsi – avete presente «La carica dei cento e uno»? – così noi finiamo per assomigliare al nostro nome. Che sia da maschi o da femmine poco importa.

Corriere della Sera, 3 agosto 2018 (Futura #88)

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