La Corte Suprema ha stabilito ieri all’unanimità che gli stati possono proibire la pratica dei cosiddetti «elettori infedeli»: se ad esempio i cittadini del Colorado dovessero votare per il candidato repubblicano alle presidenziali, lo Stato potrebbe obbligare i membri del collegio elettorale a votare per lo stesso candidato un mese dopo, quando formalmente eleggono il presidente. La legge, infatti, non li obbliga e, nel 2016, 11 dei 538 grandi elettori fecero di testa propria. Secondo il New York Times, però, la decisione potrebbe avere un impatto anche sul National Popular Vote Interact Compact, un accordo fra stati che si sono impegnati ad assegnare i propri voti elettorali al candidato che ha vinto il voto popolare (qui un approfondimento).

Finora lo hanno ratificato in 15, più il District of Columbia, per un totale di 196 voti elettorali: una volta arrivati a 270, la soglia necessaria a un candidato per ottenere la presidenza, il collegio elettorale sarebbe superato nei fatti — senza doverlo stabilire formalmente con un complicatissimo emendamento costituzionale — e alla Casa Bianca andrebbe colui che ha vinto il voto popolare, ovvero che ha ottenuto più preferenze in tutti gli Stati Uniti.

Per il Times, dal punto di vista legale non c’è un legame fra la decisione della Corte Suprema e il National Popular Vote Interact Compact, ma esiste dal punto di vista politico: «Rafforzare il collegio elettorale e renderlo più rigido può dare slancio al movimento per il voto popolare», ha spiegato la professoressa Jessica Levinson, esperta di legge elettorale della Loyola Law School. In pratica, sostiene, «una decisione opposta da parte del massimo tribunale americano avrebbe reso inattuabile l’accordo siglato dagli Stati».

Corriere della Sera, 7 luglio 2020 (Newsletter AmericaCina)

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