Si parla spesso di coniugare la maternità con gli obiettivi professionali, di essere madri senza rinunciare alla propria identità, ma al di là del «Lean In» teorizzato dalla numero due di Facebook Sheryl Sandberg, che invitava le donne a spingere per realizzare i propri obiettivi lavorativi, la vita quotidiana di una famiglia è disseminata di piccole trappole gestionali che raramente possono essere risolte senza reti sociali e una struttura economica: un’influenza, un ponte scolastico, un imprevisto si scontrano spesso con una riunione, un viaggio di lavoro o una semplice giornata in ufficio. «Le difficoltà sono state parecchie: sono una partita Iva e sono tornata al lavoro dopo cinque giorni», racconta Daniela Scattolin, 27 anni, attrice e protagonista di Zero, serie tv di Netflix, diventata mamma da pochi mesi. «Mi sono organizzata con i miei genitori, che hanno preso una vacanza per aiutarmi, e una babysitter, mettendo gli impegni di lavoro nel weekend o facendo avanti e indietro in giornata. A parte i sensi di colpa, avevo davvero voglia di stare con la mia bambina».

I sensi di colpa, e l’assenza di sonno, sono stati l’ostacolo principale per Federica Padoa, direttore prodotto nursing e brand del gruppo Artsana, che ha 44 anni e due figli di 8 e 11. «Nell’immaginario collettivo la mamma deve stare solo con il bambino», spiega. «Io l’ho messo in mano ai miei genitori che aveva 5 mesi, poi c’è stato un asilo precoce e ovviamente mio marito, che è libero professionista ed è più flessibile. Non ho avuto babysitter, magari a richiesta c’era qualche zia». Padoa ha impiegato del tempo a superare quei sensi di colpa, e lo ha fatto «con l’aiuto» dei suoi figli. «Quando sono diventanti più grandi ho capito che avevano la loro vita, ed era giusto che io avessi la mia», racconta. «È stato prezioso anche far parte di un’azienda, Chicco, che ha una responsabilità nella rappresentazione delle genitorialità e che si impegna per dare voce alle sue diverse sfaccettature».

Secondo Mara Navarria, 36 anni, schermitrice appena rientrata dalle Olimpiadi di Tokyo e campionessa mondiale di spada nel 2018, non bisogna invece sentirsi in colpa: «Non possiamo gestire tutto, è umano: chiedere aiuto è un segno di maturità», spiega. «Il mio primo ritiro è stato a due mesi e mezzo dal parto, mi ha aiutato mia mamma. Il mondiale è stato a 4 mesi: lì ci hanno pensato mio marito e un’amica, che è diventata la nostra seconda tata nel caso la prima sia impegnata. Nei periodi di carico abbiamo i ritiri federali e gare magari in Estonia e in Cina nell’arco di pochi giorni: se non ci fosse mio marito, che organizza i suoi impegni in base al mio calendario, non potrei continuare a fare il mio lavoro. Ma abbiamo ricevuto l’aiuto di forse dieci persone: i genitori che si sono presi delle ferie e persino una vicina di casa, magari in cambio di una cena friulana».

È una genitorialità partecipata – famiglia, babysitter, amici, vicini o compagni di squadra – che può aiutare a superare lo stress psicofisico, ma anche fornire nuove capacità. «Ora sono più pratica, vado meno nel panico per cose che prima mi spaventavano», dice Scattolin. «In questo caos gestionale non ho più tempo da perdere», spiega invece Padoa. «Ora sono più veloce, ho più pazienza e uno spirito da problem solver. Con la nascita di un bambino è più difficile incastrare tutto: dobbiamo essere più flessibili nei confronti di noi stessi, accettarci. A volte ci si sente terribilmente soli nella maternità. Per me, ad esempio, è importantissimo condividere le storie: più siamo e più ci aiutiamo reciprocamente».

Corriere della Sera, 19 settembre 2021 (inserto Il tempo delle donne, pagina 14)

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