C’è stato un momento in cui Kevin Spacey era l’attore più ricercato d’America: Frank Underwood, il personaggio che interpretava nella serie tv House of Cards, era arrivato alla presidenza, lui vinceva premi e veniva scritturato per film di primo piano. Poi, il 29 ottobre 2017, l’attore Anthony Rapp raccontò di essere stato molestato a 14 anni da Spacey, che all’epoca di anni ne aveva 26: Spacey disse di non ricordare, si scusò, ma altri quindici giovani uomini lo accusarono di comportamenti impropri e lui venne cancellato. Da allora non si è visto più in giro, diventando una delle vittime più note della cancel culture, la pratica di non supportare più persone, aziende o istituzioni che sono considerate inaccettabili dal punto di vista etico.

Questa cultura della cancellazione nasce spesso fra i giovani o nei campus universitari, e decolla attraverso i social network colpendo indistintamente colpevoli e innocenti, cancellando storia, letteratura, musica, e persino facendo cadere le statue. Ad esempio quelle confederate, abbattute in tutti gli Stati Uniti in quanto simbolo del suprematismo bianco e del razzismo sistemico, quello insito nelle istituzioni che hanno sempre avvantaggiato i bianchi rispetto ai neri, ma anche quelle di Cristoforo Colombo — che, a seconda dei punti di vista, ha scoperto l’America o si è reso colpevole di genocidio dei nativi — o di Italo Balbo, semplicemente fascista. Ma anche quelle di Abraham Lincoln o Thomas Jefferson, i padri di una patria che — giudicata secondo gli standard moderni — è stata fondata sulla schiavitù. La battaglia era cominciata proprio da un simbolo confederato in South Carolina, nel 2015, dopo la strage in una chiesa afroamericana di Charleston: la governatrice repubblicana Nikki Haley accettò di rimuovere la bandiera Dixie dei secessionisti, simbolo di odio e segregazione, che dagli Anni Sessanta sventolava dalla cupola del parlamento statale.

Da lì in poi, i casi sono stati centinaia, celebri e meno noti: un manager tech bianco che aveva insultato una famiglia filippina in un ristorante della California e che fu costretto a dimettersi; il batterista dei Police, Stewart Copeland, accusato di essere figlio di una spia e quindi complice di colonialismo e genocidio; il direttore delle opinioni del New York Times costretto a lasciare il proprio lavoro per aver pubblicato un intervento controverso (di un senatore) e così via. La cancel culture non è un movimento, non ha leader e non c’è un’ideologia di fondo, ma spesso viene associata all’estrema sinistra e alla “cultura woke”, quella di chi è in stato di allerta contro le micro-aggressioni subite dalle minoranze.

Ed è così divisiva che persino la rivista Harper’s, decisamente progressista, ha pubblicato lo scorso anno un appello firmato da 153 intellettuali che denunciavano l’atmosfera “soffocante” che ha prodotto. «Il modo di sconfiggere le idee sbagliate è mettendole in luce, discutendone, criticandole e convincendo gli altri, non cercando di metterle a tacere», avevano scritto fra gli altri Margaret Atwood, Salman Rushdie, Noam Chomsky, Francis Fukuyama, Gloria Steinem e Garry Kasparov. «Rifiutiamo di dover scegliere tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra».

Sette, 15 ottobre 2021 (pag 29)

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