Il 16 marzo, studiando informazioni pubbliche, l’ex generale americano Ben Hodges aveva sostenuto che i 10 giorni seguenti sarebbero stati decisivi per l’esito della guerra: i russi erano a corto di uomini e munizioni, l’inattesa resistenza ucraina — oltre a causare perdite enormi— aveva fatto saltare i piani e disperdere le unità. Putin, insomma, stava cercando una via d’uscita. La profezia di Hodges si è rivelata esatta, a conferma del fatto che gli americani — e quindi gli ucraini — hanno una visuale chiara di quello che avviene sul campo: il 25 marzo, il vicecapo di Stato maggiore russo Sergej Rudskoi ha annunciato che la prima fase dell’operazione si può dichiarare conclusa e che ora si concentreranno sull’est del Paese, in particolare sulla «liberazione» del Donbass. Rudskoi non parla però di obiettivi raggiunti, ma di «principali spallate completate»: ora l’obiettivo è Mariupol, che permetterebbe a Putin di dichiarare vittoria e annunciare la denazificazione dell’Ucraina. Non significa quindi che la guerra sia finita, ma che entra in una nuova fase. L’esercito russo si è adattato alle difficoltà incontrate e ha adottato una strategia che gli permetterà di andare avanti a lungo, facendo danni da lontano e limitando le perdite (anche se a Kherson è stato ucciso un altro generale, Yakov Rezantsev: è il settimo). Gli ucraini resistono, devono proteggere i rifornimenti occidentali e intanto hanno tracciato un’altra linea, il 9 maggio. A Kiev si ritiene che i russi torneranno a casa quel giorno, data in cui a Mosca si celebra la sconfitta del nazismo: saranno riusciti a vedere attraverso la nebbia di guerra anche questa volta?

Corriere della Sera, 27 marzo 2022 (pagina 2)

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