Per continuare a tenere testa ai russi, gli uomini di Zelensky hanno bisogno di «armi, armi, armi», come disse tempo fa il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba per sollecitare l’invio di rifornimenti da parte della Nato. Solo che queste armi impiegano del tempo per essere operative sul campo, mentre i soldati della resistenza di tempo non ne hanno. Ce ne vuole per approvare i pacchetti di aiuto, per preparare i pallet che vengono inviati in Polonia e poi trasferiti via terra in Ucraina percorrendo di notte lunghe distanze, per addestrare i militari ucraini all’uso di sistemi che non hanno mai visto. E poi, una volta finite le munizioni, ci vuole tempo per ottenere ulteriori rifornimenti che seguano lo stesso percorso, con il rischio — ovviamente — di essere intercettati e colpiti dai russi: nei giorni scorsi abbiamo raccontato come i sistemi lanciarazzi a lungo raggio Himars, richiesti a gran voce da Zelensky, abbiano 6 colpi e, una volta sparati, necessitino di un camion che porti la salva successiva.

Gli Stati Uniti continuano a garantire aiuti, questa settimana hanno annunciato un altro pacchetto da un miliardo di dollari che comprende munizioni per gli Himars, ma nel Donbass si combatte da due mesi una sfiancante guerra d’artiglieria e al momento sono stati autorizzati soltanto 4 di questi sistemi lanciarazzi multipli che — sostengono da Kiev — potrebbero cambiare le sorti del conflitto. «Se ne avessimo 60 i russi perderebbero la possibilità di avanzare ovunque, verrebbero fermati», ha detto nei giorni scorsi al Guardian Oleksiy Arestovych, consigliere militare di Zelensky. «Se ne ottenessimo 40 avanzerebbero, ma lentamente e con forti perdite. Con 20 avanzerebbero con perdite maggiori rispetto ad adesso».

Il calcolo di Arestovych aiuta a capire la differenza che passa fra le necessità di Kiev e la possibilità occidentale di soddisfarne le richieste: gli ucraini chiedono 60 lanciarazzi multipli, gli americani — che ne hanno in totale 363, secondo l’International Institute for Strategic Studies — ne inviano 4, che si sommano ai 3 promessi dai britannici. E poi c’è il problema delle tempistiche: i 4 Himars annunciati il 1° giugno arriveranno sul campo — con soldati addestrati a usarli — soltanto alla fine del mese.

Questi numeri rilanciano i dubbi degli Alleati, che iniziano a domandarsi se gli aiuti forniti dai 47 Paesi impegnati al fianco di Kiev abbiano poi davvero un effetto sul campo. «Gli scettici — scrive l’editorial board del Wall Street Journal, soffermandosi sul dibattito interno al Congresso americano — sostengono che non si possa aiutare l’Ucraina per sempre; proprio per questo dobbiamo inviare le armi giuste più rapidamente e in numeri sufficienti per fermare e respingere l’avanzata russa. È l’unico modo per portare Putin al tavolo dei negoziati».

L’Ue, per ora, ha deciso di andare avanti, come ha confermato lunedì Josep Borrell, alto rappresentante per la politica estera comunitaria, al termine del consiglio degli affari esteri in Lussemburgo. «I ministri — ha detto — hanno rinnovato oggi l’impegno ad aiutare militarmente Kiev. Dobbiamo sostenere l’Ucraina fino a che serve». Ma per quanto servirà ancora? Il blocco occidentale comincia infatti a mostrare le prime crepe sugli aiuti, come spiega il Washington Post: si sta creando una spaccatura fra coloro che vogliono mettere fine alla guerra prima possibile — e fra questi c’è anche l’Italia — e coloro che invece vogliono punire la Russia. Se non sarà gestita adeguatamente, questa frattura potrebbe avere conseguenze pericolose.

L’Occidente, ha avvertito il premier britannico Boris Johnson nel weekend, rischia di incorrere in una «war fatigue», una stanchezza da guerra che demoralizza tutto il fronte, mentre la Russia — lentamente, ma costantemente — continua a strappare terreno agli ucraini.

Corriere della Sera, 20 giugno 2020 (pag 8 e pag 9 del 21 giugno)

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