Russia, un nuovo rapporto con l’Unione europea

La crisi georgiana suggerisce all’Ue un atteggiamento diverso con la Russia. «Meglio trattarla come un concorrente commerciale», scrive The Independent.

La guerra lampo in Georgia ha spinto l’Europa a rivedere la propria posizione nei confronti di Mosca. «Anche se la reazione russa in Georgia è comprensibile, niente garantisce che non cerchi di trarne ulteriori vantaggi. Per l’Europa è un buon motivo per riflettere su come dare alla Russia uno spazio maggiore in ambito europeo», scrive Le Figaro. «Questo però non avverrà senza la garanzia dell’inviolabilità delle frontiere e dell’indipendenza dei vecchi satelliti nell’Europa dell’Est, a cominciare dalla Polonia. I russi hanno diritto a un rispetto per lo meno uguale a quello della Turchia, affinché le situazioni dei Balcani non siano regolate da una visione unilaterale, e le vecchie repubbliche sovietiche non tengano verso Mosca un atteggiamento saggiamente neutrale».
Anche The Independent è d’accordo sulla necessità di modificare i rapporti con la Russia: «L’occidente sbaglia a ingaggiare un braccio di ferro diplomatico con Mosca. Trattandola come un concorrente commerciale potrebbe ottenere risultati migliori. Sarebbe un errore intraprendere una battaglia sulla sfera d’influenza. Rischieremmo di ripetere l’errore fatto in Georgia, aggravare cioè una situazione locale specifica con tutto il peso del confronto fra Est e Ovest. Oltretutto i paesi confinanti con la Russia non potrebbero permettersi di andare contro Mosca. Se cominceremo a considerare la Russia come un concorrente economico da battere saremo molto più avvantaggiati. Abbiamo soldi e mezzi, e la nostra influenza politica e culturale vale quanto quella russa».

Braccio di ferro fra Mugabe e l’opposizione

In Zimbabwe la crisi è sempre grave. Il presidente Robert Mugabe e il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai non sono ancora riusciti a trovare un accordo per formare un governo di unità nazionale. Le speranze della popolazione sono tutte riposte nel Movimento per il cambiamento democratico (Mdc), il partito di Tsvangirai, ma Mugabe sembra deciso a formare il governo da solo. Il 26 agosto, durante l’inaugurazione dell’anno legislativo del Parlamento, il presidente è stato fischiato e contestato duramente dall’opposizione. «I leader dell’Mdc hanno dichiarato che non formeranno nessun governo fino a quando i negoziati non saranno conclusi . Descrivono il comportamento di Mugabe come una dichiarazione di guerra al popolo», scrive il quotidiano sudafricano Mail & Guardian. Il connazionale Independent Online aggiunge: «Le discussioni sono in stallo da due settimane. Da quando cioè Tsvangirai ha rifiutato una proposta per fare il premier, con Mugabe presidente esecutivo. Secondo l’opposizione Mugabe avrebbe avuto troppo potere rispetto Tsvangirai, che in marzo aveva vinto le elezioni. Mugabe aveva sì vinto il secondo turno elettorale, ma solo dopo che Tsvangirai si era ritirato per protesta contro le violenze subite dai suoi sostenitori». The Zimbabwean analizza le ambizioni dei leader e i desideri del popolo: «Tsvangirai vuole chiarezza sul suo ruolo nel governo di unità nazionale. L’idea di un incarico solo nominale è considerata un insulto. Il cambiamento nasce dai sentimenti e dalle emozione della gente e il popolo è con Tsvangirai. I suoi sostenitori hanno rischiato il lavoro e la vita stessa per lui. Lo Zimbabwe non andrà avanti senza Tsvangirai: la sua presenza sulla scena farà la differenza per le vite del popolo zimbabwiano».

Il Pakistan sprofonda nel caos e preoccupa gli alleati statunitensi

Il Pakistan è scosso da un terremoto istituzionale. «Se le dimissioni del presidente Pervez Musharraf rappresentano un passo in avanti nella transizione democratica», scrive il Guardian, «ma il collasso della coalizione di governo questa settimana  ne sottolinea la delicatezza. Gli Stati Uniti devono capire che non possono vincere la guerra al terrorismo combattendo solo in Afghanistan. Il terrorismo dovrà essere sconfitto anche in Pakistan». Il Daily Telegraph si chiede: «Chi porterà avanti il paese in questo momento così difficile?. La risposta sembra essere Asif Ali Zardari, il vedovo di Benazir Bhutto. Zardari infatti sta cercando un’improbabile riabilitazione attraverso le elezioni del 6 settembre e potrebbe ricevere un mandato da Washington per coprire le operazioni di frontiera dell’esercito pachistano contro il terrorismo». Il futuro è incerto. Secondo il Financial Times: «Il Pakistan ha già perso il controllo della frontiera occidentale, ma ora rischia di vedere la propria federazione disintegrarsi. Il paese affronta una grave crisi economica, ma la coalizione di governo sembrava troppo divisa anche per accordarsi sulla nomina di un ministro delle finanze. Ora bisogna vedere se i leader pachistani saranno in grado di governare nell’interesse nazionale o soltanto nel proprio». Anche negli Stati Uniti c’è forte preoccupazione. «I problemi del Pakistan non finiscono con le dimissioni di Musharraf. Le divisioni interne alla coalizione ci dicono che la crisi è più acuta che mai. Il Pakistan è una potenza nucleare e un rifugio di taliban, di conseguenza i suoi problemi diventano anche i problemi di Washington», commenta il Boston Globe. «Il generale Musharraf è stato  un alleato ambivalente nella battaglia agli islamici radicali», conclude il Philadelphia Inquirer. «Ora l’America deve chiedersi se il nuovo governo riuscirà a confrontarsi con il jihad».

Nuova chance per il Partito socialista francese

I socialisti scelgono a novembre il nuovo segretario in un clima molto teso. Nonostante le liti interne «per il Ps è l’ora dell’ottimismo», scrive Libération.

Dopo le fallimentari elezioni presidenziali del 16 maggio 2007 che portarono alla sconfitta del Partito socialista, in Francia è sempre aperto il dibattito sul futuro del partito, anche in vista del Congresso di Reims a novembre. «Come previsto», dichiara Libération, «il sindaco di Parigi Bertrand Delanoë si è candidato alla segreteria socialista. L’annuncio arriva a tre giorni dall’inizio della scuola estiva del Ps a La Rochelle». «Se per il momento la lotta per succedere all’attuale segretario del Partito socialista è fra Delanoë e Ségolène Royal, Martine Aubry, sindaco di Lille, potrebbe essere l’altra donna in gara», avverte il quotidiano francese Midi Libre. «Non è ancora candidata ufficialmente, ma non lo esclude nemmeno. Intanto cerca di aumentare i suoi consensi all’interno del partito. Aubry potrebbe essere l’antiRoyal». La République des Pyrénées critica duramente le scelte dei socialisti negli ultimi anni: «Un partito lungamente balcanizzato, minato dagli odi interni, diviso dalle eterne questioni d’ambizione che l’hanno già portato più volte sull’orlo del precipizio. Nel 1981, quando Barack Obama aveva solo vent’anni, Bertrand Delanoë, appena eletto deputato, veniva nominato portavoce del Partito socialista, divenendone il numero tre. Il momento era diverso, eppure oggi, fra false promesse e con meno potere d’acquisto, meno lavoro, più deficit, più debiti e più povertà in Francia, l’opposizione si trova in un momento favorevole per contrastare il governo». Come dice Libération, «per il Ps è l’ora dell’ottimismo».

Berlino ha paura delle ingerenze e limita gli investimenti stranieri

Il governo tedesco ha approvato mercoledì scorso un  emendamento alla legge sul commercio estero che limiterà l’influenza degli investitori extraeuropei sulle compagnie tedesche. Chi tenterà infatti di investire nel mercato tedesco verrà sottoposto a severi controlli dal governo federale. Le reazioni della stampa europea sono tutt’altro che positive. Il Financial Times è convinto che la legge possa avere conseguenze disastrose: «Il governo tedesco non è  il solo ad avere paura degli investitori stranieri, ma non sta facendo un favore alla sua economia sbattendoli fuori». Anche Le Monde è scettico: «In Germania è stata confermata l’ascesa del protezionismo, con grande rammarico dell’ambiente economico. Al’inizio il crescente potere dei fondi d’investimento stranieri ha spinto Berlino a inasprire la legislazione. Il governo voleva contenere le ambizioni di stati investitori con enormi riserve a disposizione, come Russia e Cina, che sono sospettati di utilizzare la finanza per esercitare influenza politica o guadagnare conoscenze tecniche. Ora anche le maggiori compagnie tedesche sono preoccupate. Il mondo dell’economia condanna però la decisione di Berlino accusandola di impedire il libero movimento dei capitali». Anche Michael Hüther, direttore dell’Istituto per la ricerca economica di Colonia, è convinto che il nuovo regolamento sia un disastro. Hüther scrive infatti sul quotidiano Handelsblatt: «La confusa terminologia legale dell’emendamento potrebbe facilitare abusi deliberati e interpretazioni ambigue. La sicurezza e l’ordine interni sono concetti banali, su cui chiunque può trovarsi daccordo. Sono temi che possono facilmente essere strumentalizzati dalla politica per attribuirsi maggiori poteri. Ed è questa la caratteristica più cialmente questa la cosa più allarmante dell’emendamento, oltre al fatto che si concede allo stato il diritto di intervenire sugli investimenti di capitali stranieri».

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Paraguay, la lunga strada del vescovo Lugo

Il 20 aprile scorso Fernando Lugo, ex vescovo cattolico, è stato eletto presidente del Paraguay, interrompendo l’egemonia del Partito Colorado durata 61 anni. Il 15 agosto è entrato ufficialmente in carica. I quotidiani paraguaiani commentano la cerimonia. «Il vescovo dei poveri ha promesso di essere il presidente dei poveri», scrive Ultima Hora. «Adesso non ha più scuse, ha il potere e i mezzi per mantenere le sue promesse». La Nación spiega: «Lugo ha un sostegno eccezionale, ma gli si potrebbe ritorcere contro se non dovesse rispettare i suoi impegni in materia di trasparenza e cambiamento. Vuole portare benefici a tutta la società, ed è lodevole, ma perseguire politiche di stampo marxista pone dei rischi. I suoi messaggi e i suoi comportamenti suscitano inquietudine, soprattutto quando si trova in compagnia di Hugo Chávez e del presidente dell’Ecuador Rafael Correa». Abc Color è più cauto: «Il Paraguay ha un grande bisogno di modernizzazione e trasparenza per risollevarsi. Una sinistra reazionaria però non farà altro che aggravare i nostri problemi». Fuori dal Paraguay il quotidiano messicano La Jornada precisa: «A suo favore ha l’appoggio dei cittadini e dei paesi vicini, ma non basta l’etica per governare. Servono la strategia, le risorse, gli accordi e una politica pubblica efficace». «Il Paraguay ha davanti a sè un lavoro difficile, però non impossibile», scrive il venezuelano El Comercio, «il paese necessita del suo equilibrio, senza il quale perderà l’opportunità odierna e concreta di raggiungere i suoi obiettivi con l’appoggio di tutti». Conclude lo spagnolo El País: «È intelligente da parte sua non stravolgere subito il paese, ma se vuole veramente portare il Paraguay verso la trasparenza e l’onestà, dovrà confrontarsi con i settori più privilegiati».

Algeria, l’attentato colpisce anche il governo

Il 19 agosto un attentato suicida ha scosso l’Algeria. L’Expression, quotidiano vicino al presidente Abdelaziz Bouteflika, racconta i fatti: «Un kamikaze, a bordo di una camionetta, si è lanciato a tutta velocità contro l’Accademia della Gendarmeria di Issers, località a 50 chilometri da Algeri. I morti sono stati 44 e i feriti numerosi. Tutte le vittime erano molto giovani. È stato uno degli attacchi più violenti degli ultimi otto mesi». Secondo Le quotidien d’Oran «è un offensiva in piena regola e di grande spessore contro lo stato e contro il popolo algerino. L’obiettivo perseguito dai terroristi è semplice: gettare l’Algeria nella paura e nel terrore, dimostrare che il governo non è riuscito a instaurare la pace civile. Un fallimento che, sommato a quello economico e sociale, dovrà spingere la popolazione a liberarsi dal potere». Il quotidiano francofono El Watan è durissimo nei confronti della politica di conciliazione del governo: «Questo è troppo! È l’ecatombe, è l’orrore! I terroristi lanciano i loro funesti attacchi come per rispondere colpo su colpo alle operazioni dell’esercito. La mano tesa dal governo ai comandi islamici è stata morsa e rimorsa, colpita e ricolpita». «Dopo il picco di metà anni novanta, l’attività dei terroristi non è mai stata intensa come negli ultimi due anni. È come un rinnovamento ciclico», commenta Liberté. «Rifiutandosi di dichiarare una guerra già in corso, l’Algeria si è condannata a combatterla nuovamente. O a perderla». Le Soir d’Algerie infine si interroga sull’attentato e tenta di spiegare la logica dei terroristi: «Gli attentati non hanno avuto tregua. Si fermano solo quando il governo si mostra conciliante con il movimento islamico. I terroristi attaccano quando il momento è propizio. I partigiani del terrore non obbediscono ad alcuna logica, se non a quella di approfittare del minimo errore per passare all’attacco».

Se Parigi nega la recessione

La crisi economica incombe su Parigi, ma il governo Fillon minimizza. A farne le spese potrebbero essere tutti i settori, «anche l’ambiente», commenta Le Monde.

 Mentre lo spettro della recessione anima le polemiche sui giornali francesi, il primo ministro François Fillon ha riunito i vertici economici del governo per evitare che “si diffondano voci che non corrispondono alla realtà”. Fillon rifiuta infatti le previsioni allarmiste del mondo della finanza e respinge gli attacchi dell’opposizione, che continua, dopo un anno, a denunciare l’ingiustizia e l’inefficacia del pacchetto fiscale. Il quotidiano Le Figaro spiega i motivi di questa riunione straordinaria: «È guerra contro la recessione, contro il declino della ricchezza nazionale, contro un potere d’acquisto in continuo calo. Per questo il primo ministro ha riunito un vero e proprio consiglio di guerra. All’ordine del giorno c’erano l’analisi della situazione attuale, un dibattito sulla gravità del male che ci colpisce e qualche misura per dimostrare che le istituzioni sono in prima fila per risolvere i problemi. L’intenzione è lodevole, ma il governo deve soprattutto sostenere le imprese, vere vittime dello choc economico». Il momento è difficile per la Francia e anche la difesa dell’ambiente potrebbe farne le spese: «C’è un dibattito in corso fra il ministro dell’ecologia Jean-Louis Borloo e quello del bilancio Eric Woerth», spiega Le Monde. «Il primo è orgoglioso degli incentivi per il passaggio ad automobili meno inquinanti e propone di estendere le misure ad altri beni di consumo. Il secondo si appella al costo dell’operazione per spiegare che, in un contesto economico depresso e con un deficit pubblico enorme, non è più il momento dei regali fiscali».  

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Pechino scalda il dibattito sulle prossime Olimpiadi di Londra

I Giochi di Pechino non sono ancora finiti, ma quelli di Londra 2012 sono già cominciati, almeno per quanto riguarda il dibattitto sui quotidiani britannici. Simon Barnes, giornalista del Times spiega perché, fra costi enormi e giorni passati sotto i riflettori internazionali, i paesi si diano battaglia per assicurarsi le Olimpiadi: «La Cina ha raggiunto la maturità industriale e urbanistica. I Giochi mostrano al mondo e ai cinesi che il paese è arrivato». Ancora una volta le Olimpiadi non parlano solo di sport, ma di integrazione, politica,  economia e relazioni internazionali, come scrive Barnes: «La Cina è stata temporaneamente invasa dal mondo intero. I muri sono caduti. Io non credo che potranno essere ricostruiti. Ora quella cinese è una vecchia società incinta di una nuova. I Giochi hanno fatto la loro parte, così come i soldi, i mercati, la prosperità e l’inarrestabile voglia di occidentalizzazione di cui le Olimpiadi stesse sono parte. Fra quattro anni toccherà a Londra. L’evento sarà favoloso, il mondo vedrà che l’Inghilterra non è solo piena di vecchi palazzi e fatiscenti memorie imperiali, ma anche di profonde radici e grandi novità». Gli inglesi giudicano Pechino 2008 con gli occhi rivolti a Londra, come l’Independent: «Ogni giorno ci svegliamo con nuovi trionfi sportivi. Non ci siamo abituati. Per la prima volta gli investimenti pubblici hanno fatto la differenza. L’opinione diffusa è che ora il governo potrà aumentare gli stanziamenti per preparare gli atleti all’Olimpiade di casa». «In Gran Bretagna il dibattito sulla spesa pubblica è sempre condotto in termine di sprechi», continua l’Independent. «Si pensa che i tagli alla spesa siano giusti e gli incrementi eccessivi. Io ho notato che questo ragionamento funziona solo in astratto, ma è sempre un modo per segnare punti politici. Anche i successi alle Olimpiadi avranno un preciso impatto politico. Il governo dovrà usare gli eventi di Pechino per incoraggiare un dibattito più maturo sulla spesa. Se gli elettori capiranno il nesso fra gli investimenti e le loro conseguenze, si entusiasmeranno».

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La Turchia si divide sulla visita del presidente Ahmadinejad

Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha effettuato una visita di due giorni in Turchia, rispondendo all’invito del presidente turco Abdullah Gül. L’obiettivo di Ankara è quello di porsi come mediatore sul problema del nucleare iraniano, ma l’iniziativa ha suscitato numerose polemiche. «Non è tanto la natura teocratica del regime a suscitare dubbi, quanto il fatto che l’Iran stia creando problemi agli Stati Uniti», scrive Nuray Mert sul Radikal. «I progetti nucleari iraniani hanno aperto lo scenario di un attacco militare contro l’Iran, anche se di fatto l’ipotesi è difficile.L’idea è piuttosto di soffocare l’Iran con una serie di sanzioni. In questo contesto la Turchia è sotto forti pressioni, affinchè prenda parte a questa politica delle sanzioni senza discutere». Mert ritiene che la situazione sia complicata. «É sbagliato pensare che la posizione turca si spieghi solo con gli interessi comuni dei due paesi sulla questione curda, ma più la crisi fra Iran e Occidente si accentua e più le relazioni fra Turchia e Iran si trasformano in un’amicizia difficile. Speriamo che questa amicizia non diventi impossibile». Mehmet Y. Yilmaz su Hürriyet critica duramente il governo dell’Akp, partito di maggioranza islamico-moderato: «Accogliendo Ahmadinejad il governo appoggia indirettamente la posizione del presidente iraniano sul programma nucleare, ma con questo ci rimetteranno soprattutto Israele e Turchia, e l’Akp non sembra capirlo. I responsabili del partito vogliono che la Turchia abbia maggior peso politico nella regione, ma, con vicino una potenza nucleare, non avrà molte possibilità». Taha Akyol sul quotidiano Milliyet è di tutt’altro avviso: «Ankara e Teheran hanno intensificato le loro relazioni e questo ha portato a una stretta collaborazione fra i due paesi sulla lotta al terrorismo, ul problema iracheno e in campo energetico. L’incontro fra due presidenti non produrrà niente di concreto, ma dimostrerà alla comunità internazionale che la Turchia c’è. Questa, a lungo termine, è una mossa intelligente».

Londra riduce il risarcimento alle vittime degli stupri. È polemica.

La Criminal Injuries Compensation Authority, la corte di giustizia britannica, ha ridotto il risarcimento a quattordici donne vittime lo scorso anno di stupro, motivando la decisione con il fatto che fossero ubriache e di conseguenza parzialmente responsabili del fatto. «Chiamatemi cinica se volete», scrive Cath Elliott del Guardian, «ma non sono sorpresa dalla notizia. Se sei una delle quasi 14 mila che ogni anno trovano il coraggio di denunciare un crimine sessuale, qualcuno, da qualche parte, troverà una ragione per dire che è stata tutta colpa tua. E c’è ancora gente che si domanda perchè migliaia di donne decidono di non denunciare uno stupro». Secondo l’Indipendent «la sicurezza e la responsabilità personale sono sicuramente importanti per evitare uno stupro. Le donne, bevendo troppo, si espongono infatti come potenziali obiettivi di abusi sessuali. Queste considerazioni non dovrebbero assolutamente avere valore, però, nel momento in cui lo stupro è stato commesso. Il fatto che una donna sia ubriaca non lo rende di certo un crimine minore».
Liz Hunt del Daily Telegraph è altrettanto indignata: «Ancora una volta sentiamo lo stesso discorso. Com’era vestita, quanto aveva bevuto, che droghe aveva preso, la sua storia sessuale. Ora che sappiamo cosa pensa la corte, facciamo meglio a stare attente, ragazze. Se ordiniamo da bere, perdiamo l’ultimo autobus che ci riporta a casa e siamo così sfortunate da essere stuprate, allora il nostro bere sconsiderato può essere abbastanza da impedirci di ricevere un risarcimento adeguato».
Lo stupro rimane dunque un argomento controverso, soprattutto perchè molta gente continua a credere che la vittima sia in qualche modo colpevole, come spiega la stessa Liz Hunt. «Un amico che era giurato in un recente caso di stupro mi ha spiegato che la visione prevalente nella stanza della giuria era che, dal momento che la ragazza stava andando in un night club, la sua intenzione era quella di fare sesso. Quindi lo stupro non era una possibilità reale».

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Londra chiude l’era dei pop corn

Numerosi cinema nella capitale britannica hanno deciso di bandire il popolarissimo snack. Secondo il Guardian: «il dominio del pop corn è giunto al termine».

Chi potrebbe immaginare un cinema senza pop corn? Il legame che si è creato negli anni fra la sala di proiezione e lo snack sembrava indissolubile. Eppure a Londra è iniziata la battaglia ai pop corn. Puzzano, sporcano, disturbano e fanno ingrassare. Così, dopo la richiesta di molti spettatori, soprattutto quelli dei cinema d’essai, i proprietari di alcune sale hanno deciso di bandire i pop corn. «Da tempo immemore i pop corn erano parte integrante dei pomeriggi passati al cinema», scrive il Times, «ma ora si trovano sotto un attacco brutale per l’odore, per il valore nutrizionale e per la loro volgarità di base. I pop corn sono però un’ancora di salvezza per le famiglie, una compagnia confortante durante le ore di intrattenimento».
«Noi chiediamo», continua il Times, «di lasciar scoppiettare il mais in libertà. Che cosa dovremmo fare in alternativa? Portarci dei sandwich al cinema? Certo, ci sarebbe anche la possibilità di non mangiare niente, ma sarebbe semplicemente da pazzi».
«I pop corn sono diventati parte integrante dell’andare al cinema», spiega il Guardian. «Gli spettatori non vedono l’ora di spendere il doppio pur di mangiarsi il loro snack. Nonostante ciò il dominio dei pop corn sembra essere giunto al termine». Richard Napper, direttore del settore marketing di una delle catene di sale cinematografiche, spiega al quotidiano britannico: «Gli spettatori anti pop corn sono più impegnati e colti, i cinema anti pop corn hanno un’atmosfera distinta, sofisticata». Che si tratti, in fin dei conti, di una pura scelta di stile?

Mugabe costretto a trattare

Il presidente dello Zimbabwe negozia con l’opposizione. Secondo il Guardian «trattare con il regime è moralmente ripugnante, ma ora basta uscire dalla crisi».

Le pressioni internazionali e le disgrazie economiche hanno costretto il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe a negoziare un accordo con il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai, leader del Movimento per il cambiamento democratico (Mdc, all’opposizione). «Non si conosce ancora la portata del patto e Tsvangirai non rilascia commenti», scrive il Wall Street Journal. «Accordare il potere esecutivo a Tsvangirai alleggerirebbe decisamente la posizione di Harare. Ma il presidente Mugabe, che governa da 28 anni, ha giurato di andare in guerra piuttosto che venire a patti con l’Mdc. Allo stesso tempo ottenere poteri solo nominali non è più sufficiente per l’opposizione che, dal voto di marzo, è vitttima di continue violenze da parte del governo». Il Times è categorico: «Mugabe deve lasciare, non c’è altra soluzione. Dopo aver rubato l’elezione e mandato in disgrazia se stesso e le sue forze di sicurezza, sarà fortunato se resterà al comando anche simbolicamente».
«Cedere solo parte dell’esecutivo», continua il Times, «sarebbe una presa in giro per le speranze dei suoi oppositori e soprattutto condannerebbe lo Zimbabwe a una faida interminabile fra i due principali partiti».
«Solo l’idea che il tiranno zimbabwiano Robert Mugabe resti ancora al potere è terribilmente ingiusta», sostiene il Guardian. «L’urgenza però di tirare fuori dai guai il paese impone un negoziato, nonostante sia moralmente ripugnante sedersi con il principale responsabile della crisi. Questa è una situazione senza vincitori. Più a lungo Tsvangirai tirerà avanti, meno otterrà per il popolo dello Zimbabwe».

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Se Borghezio dichiara guerra ai musulmani

Ha avuto grande risalto sulla stampa francese la decisione della Corte d’Appello di Versailles di scarcerare l’ex brigatista rossa Marina Petrella, condannata all’ergastolo per omicidio nel 1992. «Era fuggita in Francia e si era rifatta una vita grazie alla dottrina Mitterand, che accordava l’esilio agli ex terroristi», scrive Libération. «La protezione ha tenuto fino al 9 giugno 2008, quando il governo ha avviato la procedura di estradizione. Da allora Marina Petrella si è come lasciata morire, con turbe depressive e suicide e una forte anoressia». Non solo i terroristi però cercano rifugio all’estero. El País spiega infatti: «La costa mediterranea della Spagna, negli ultimi anni, è diventata il principale rifugio dei mafiosi italiani». La notizia del giorno è l’arresto a Girona di Patrizio Bosti, boss della camorra nella lista dei trenta ricercati più pericolosi d’Italia. «L’estrema destra europea, di ideali fascisti e nazisti, ha trovato il suo nemico nell’islam», racconta il quotidiano argentino Clarín. «Uno dei protagonisti del movimento è il deputato della Lega Nord Mario Borghezio, attualmente nel governo Berlusconi. Personaggio amato e odiato allo stesso tempo, Borghezio organizza provocazioni quasi quotidiane: pochi giorni fa, all’interno di una storica chiesa genovese del 1200, ha dichiarato guerra ai musulmani, provocanzo una dura reazione da parte del mondo ecclesiastico italiano». Il Christian Science Monitor prova ad analizzare la crisi dell’economia italiana: «In Italia c’è chi è assunto con contratti permanenti e non può  essere licenziato e chi invece è intrappolato in contratti precari. Il governo è sul punto di approvare un progetto di legge creato per accelerare la dolorosa transizione dell’Italia verso un mercato del lavoro più flessibile. I critici sostengono però che questa misura renderà più difficile per gli italiani assicurarsi un lavoro stabile e lascerà intatti i privilegi di coloro che hanno contratti permanenti».

Mauritania, le ragioni del colpo di stato

Il 6 agosto un colpo di stato militare in Mauritania ha portato all’arresto del presidente Sidi Ould Cheikh Abdallah e del premier Yahya Ould Ahmed Waghf. Le forze armate hanno preso il controllo del palazzo presidenziale e hanno ordinato la chiusura delle radio e delle televisioni nazionali, oltre che dell’aeroporto, instaurando un giunta militare presieduta dal generale Mohamed Ould Abdel Aziz, capo della guardia presidenziale. L’azione è avvenuta in seguito alla decisione del presidente Abdallah di sostituire alcuni ufficiali dell’esercito. «Un golpe soft, senza spargimenti di sangue», scrive il quotidiano algerino Liberté. «Questo fa capire la minuziosità dell’operazione, e spiega il fatto che non si trovi nessuno che si opponga all’esercito, nonostante la deposizione di un capo di stato democratico». Secondo L’Expression, un altro quotidiano algerino, «questo colpo di stato ha sorpreso il mondo, ma di fatto arriva in un momento difficilissimo per la giovane democrazia mauritana. Le cause si possono trovare nell’inadeguatezza di alcuni dirigenti a gestire la politica del paese, in un presidente accusato di correre da solo e nell’impazienza di un esercito che veniva tenuto lontano dal potere». Il quotidiano sudafricano Mail & Guardian spiega: «I capi della giunta militare dicono di voler tenere delle elezioni libere e trasparenti il prima possibile. I trattati e gli impegni internazionali della Mauritania, un produttore di petrolio emergente in Africa, verranno rispettati». La notizia trova ampio spazio anche sulla stampa spagnola. «L’illusione di un sistema democratico nel mondo arabo è durata poco più di un anno», scrive El País. Secondo El Mundo invece: «L’epurazione dei militari è stato solo il detonatore, dietro ci sono altri motivi: l’aumento dei prezzi degli alimenti, l’inasprimento degli attacchi terroristici, in particolar modo contro gli interessi turistici, e l’incapacità di Abdallah di far fronte alla crisi».