Milano • 15 maggio 2020, venerdì
Caro Antonio,
sfogliando il tuo libro ho riavuto New York e gli incontri fortuiti di una passeggiata lungo i fiumi. In questi giorni di quarantena, che ci tengono lontano dalla città, mi ritrovo ad avere continui flash, attimi newyorkesi che si materializzano all’improvviso: vengono e se ne vanno rapidi, lasciando una piccola traccia in fondo alla memoria, che spesso devo sforzarmi per riportare in vita. Ce ne sono alcuni, però, che sono diventati ricorrenti come i sogni, come un fioco abat-jour che illumina la fine di questa vita sedentaria.
Mi è apparsa spesso una passeggiata notturna sotto la neve, per tornare a casa dal cinema fra la 19esima strada e Broadway. Eravamo soli, io e Serena, abbiamo attraversato Gramercy Park senza incontrare nessuno e poi abbiamo visto spuntare fra i fiocchi le luci colorate sulla vetrina di Rolf’s, un ristorante tedesco che ho sempre amato pur senza esserci mai entrato. Non ricordo altro – né quale fosse il film, né cosa accadde dopo aver girato l’angolo della 3rd Avenue in quell’inverno del 2015 – ma in testa ho l’intensa felicità di quei pochi isolati che avrei voluto continuare a percorrere per anni.
E sarà che nei miei ricordi solo la neve può svuotare le strade di New York come questo lockdown, ma per la mente mi è capitato spesso il ricordo di una tempesta furibonda di qualche anno prima, sarà stato il 2012, affrontata con un cappotto pesante, due maglioni e qualche bicchiere di bourbon in un bar di Bushwick: l’unica cosa che ricordo è la porta che si apriva e il brusio che, mischiandosi al vapore, usciva sciogliendosi nella neve.
C’è una terza immagine su cui inciampo spesso in questi giorni, spesi vagando fra la cucina, il soggiorno, il terrazzo e la camera da letto, pestando di tanto in tanto un giocattolo abbandonato, come quei pattini bianchi solitari che hai incrociato sul marciapiede di Zerega Avenue, nel Bronx. È il pianista che suona vecchie canzoni in un angolo del Water Club, una chiatta ancorata sull’East River dove una volta c’era il mio ristorante preferito di Manhattan: era sotto casa dei miei genitori, ci festeggiavamo compleanni, arrivi e partenze e belle notizie. L’unico suono che sento, però, è il caminetto che scoppietta alle spalle del pianista.
Ti racconto questo, Antonio, perché mi sono chiesto da dove venissero questi ricordi, ma soprattutto dove mi volessero portare. Poi, qualche giorno fa, ho capito che è il modo con cui la mia mente intendeva partecipare alla quarantena e alla solitudine della città che mi ha reso adulto e da cui, mai come in questi giorni, sono stato felice di esserle lontano e triste allo stesso tempo.
C’è un’altra cosa a cui penso, camminando con te lungo i confini della città: mi tornano in mente, chissà perché, gli adesivi con la scritta United We Stand attaccati dopo l’11 settembre al parabrezza di ogni camion, sul lunotto posteriore di ogni auto, sulla canna di ogni bicicletta. Ci penso perché, seppur spaventata, quella era un’America che remava unita e orgogliosa nella stessa direzione, come i fratelli Abbagnale della nostra infanzia.
Come tutte le grandi tragedie umane, climatiche ed economiche che in questo millennio hanno colpito New York, l’11 settembre è stata un’esperienza comunitaria vissuta, consumata ed elaborata insieme. Lo sono stati anche l’uragano Sandy che ha allagato Manhattan e spazzato via Long Island, e la crisi finanziaria del 2008: avevano svuotato le strade e i locali giusto il tempo di schivare il pericolo, per poi ripartire tutti insieme.
Questo virus che ci ha chiuso in casa, invece, è un’esperienza comunitaria vissuta in solitudine, che ha intaccato l’unità con cui l’America sapeva affrontare le avversità: una coesione umana, ma anche politica. Come ha raccontato al New York Times lo chef Andrew Carmellini, «dopo l’11 settembre, quando tutti cominciarono a uscire dalla nebbia, volevi socializzare. Volevi ubriacarti, farti un hamburger, vedere i tuoi amici per sentirti al sicuro e a tuo agio», ha spiegato. «Questo è proprio l’opposto».
Opposto come le direzioni verso cui, scrivendo ogni giorno cronache americane, sento andare il Paese, trascinato dalle guerre culturali dei partiti – sulla quarantena, sulla gestione di questa epidemia, sull’uso della mascherina, ma anche sull’aborto, sull’immigrazione e chissà cos’altro – che ci fanno sentire tutti più soli contro il mondo.
Scriveva Marina Keegan – che prima di morire a 22 anni è riuscita a essere un’apprezzata scrittrice, giornalista, poetessa, attrice e sceneggiatrice – «non abbiamo una parola per l’opposto di solitudine ma, se ci fosse, sarebbe quello che vorrei nella vita».
Ecco, caro Antonio, quello che auguro a noi, a New York e al mondo è proprio l’opposto di questa solitudine che viviamo oggi.
Andrea