«Senza munizioni gli ucraini perdono»: l’analisi allarmata del comandante delle forze Usa in Europa

Un’analisi allarmata, un evidente tentativo di convincere il Congresso degli Stati Uniti a sbloccare gli aiuti in favore dell’Ucraina: a metterlo nero su bianco è il generale Christopher Cavoli, comandante delle forze americane in Europa, in una deposizione alla Camera. L’alto ufficiale si è espresso con franchezza, per sottolineare l’urgenza e i pericoli dell’attuale momento del conflitto, una fase che non può essere sottostimata. Questi i punti del suo rapporto in Commissione.

Gli ucraini non hanno munizioni a sufficienza e se non possono rispondere al tiro nemico perderanno, «lo dico in base a 37 anni di carriera». Oggi i russi hanno superiorità di 5 a 1 che diventerà nell’arco «di settimane» 10 a 1, un divario che permetterà loro di avanzare conquistando altro territorio. Non è una solo una previsione, ma la constatazione di quanto avviene sul terreno, anche se la progressione degli occupanti non è spedita.

Mosca ha sempre un vantaggio nella guerra elettronica, nelle missioni a lungo raggio, nell’aviazione (ha perso solo il 10% di velivoli). L’Armata ha perso oltre 2 mila tank e circa 315 mila uomini (morti o feriti) però continua a crescere: è passata da 360 mila soldati in prima linea a 470 mila. Nonostante le disfunzioni e i problemi ben noti l’esercito invasore rappresenta una minaccia «esistenziale» per l’Ucraina in quanto possiede «massa e quantità», vecchie doti dell’apparato mai sfumate. Anzi rigenerate.

Secondo il Pentagono i russi sono riusciti a ricostruire il loro sistema bellico in tempi più rapidi di quelli previsti dall’intelligence. L’analisi ricorda un altro errore di calcolo, quando alcuni analisti dei servizi sostenevano che i soldati di Putin avrebbero avuto rallentamenti nella produzione di missili. La Marina ha subito colpi in Mar Nero — molte le navi affondate o danneggiate dal nemico — però conserva grandi capacità in altri scacchieri ed è ai suoi livelli più alti.

Ha effetti devastanti la campagna di bombardamenti su infrastrutture civili e città, un tipo di attacco destinato ad aumentare per indebolire la società, rendere un inferno la vita quotidiana, provocare danni. La situazione è aggravata dal progressivo indebolimento della difesa anti-aerea ucraina, che sta finendo le scorte di equipaggiamenti con i quali contrastare i raid.

Fondamentale per Cavoli è l’asse di supporto strategico rappresentato da Cina, Iran e Nord Corea. Tre Paesi che formano un’alleanza con la Russia e garantiscono un supporto diretto all’invasione. Per gli americani il regime di Kim ha spedito 6.700 container pieni di proiettili per cannoni, quasi 3 milioni di «pezzi»: è la conferma di un dato già emerso nelle scorse settimane ma ora ribadito davanti ai congressisti. Il patto tra questi Stati pone un dilemma strategico all’Occidente e al tempo stesso può avere conseguenze in altri quadranti: Pechino sta studiando attentamente la guerra in Europa e userà queste esperienze per i propri piani.

Corriere della Sera, 12 aprile 2024

Ucraina, il piano segreto di Trump per mettere fine alla guerra in 24 ore (premiando Putin)

Donald Trump ha un suo piano per mettere fine alla guerra: costringere Kiev a rinunciare alla Crimea e al Donbass. Un’idea che potrebbe portare avanti se fosse eletto presidente. A sostenerlo è il Washington Post, secondo il quale il candidato avrebbe confidato le sue intenzioni in discussioni private con i collaboratori.

L’analisi di Trump è semplice: a suo giudizio Russia e Ucraina cercano una via d’uscita ma hanno bisogno di una soluzione che salvi la faccia. E, sempre a suo giudizio, gli Stati Uniti dovrebbero forzare la mano spingendo Volodymyr Zelensky a negoziare, utilizzando anche lo stop agli aiuti militari come ulteriore mezzo di pressione: del resto ha già costretto la Camera a fermare l’approvazione di un nuovo pacchetto di aiuti da 60 miliardi di dollari per Kiev. Secondo l’ex presidente, inoltre, la popolazione in parte dell’Ucraina non avrebbe problemi a finire sotto il controllo russo.

Lo scenario prospettato è in linea con quanto affermato più volte in pubblico da Trump, convinto di poter chiudere il conflitto «in 24 ore». La visione dell’ex presidente ha il supporto di un’ala del partito ma è osteggiata da chi, nei ranghi repubblicani, non vuole fare concessioni a Vladimir Putin. Tra questi c’è il senatore Lindsay Graham, che ha espresso la sua contrarietà a soluzioni in favore degli aggressori, che premierebbero — e condonerebbero — l’invasione decisa dal nuovo zar russo.

Un simile accordo — i territori occupati in cambio di un cessate il fuoco — metterebbe in seria difficoltà l’Ucraina: Kiev non avrebbe infatti la certezza che l’Armata non decida di riprendere il conflitto, come ha già fatto in passato. Le rivelazioni del quotidiano sono state smentite da Jason Miller, consigliere ultraconservatore di Trump che le ha definite «fake news inventate di sana pianta»: l’ex presidente — sostiene Miller — «è l’unico che parla di fermare il massacro, mentre Biden vuole andare avanti».

Il piano raccontato dal Post si intreccia con il dibattito elettorale e le difficoltà degli ucraini al fronte. Nelle ultime ore, per l’ennesima volta, Zelensky ha lanciato l’allarme sulla mancanza di munizioni, sistemi anti aerei, equipaggiamenti. Una carenza che rende difficile la difesa contro la spinta degli invasori.

La manovra russa destinata ad aumentare nelle prossime settimane: tra maggio e giugno, ha avvertito il capo dell’intelligence Kyrylo Budanov, l’Armata lancerà una nuova offensiva con l’intento di conquistare altro territorio in zone ad ovest di Bakhmut e in direzione di Pokrovsk (a quaranta chilometri a nord i Avdiivka). E i generali si attendono iniziative su alcuni punti dove le linee potrebbero essere travolte grazie alla superiorità in uomini, cannoni e mezzi.

Gli ucraini hanno indicato di nuovo tre problemi, seri. Il primo: servono altri soldati, la media di quelli impegnati è sui 40 anni. Il secondo: i raid russi condotti con le bombe plananti creano danni enormi, spazzano via ogni cosa malgrado non sia troppo precise; è un martellamento continuo, attuato con migliaia di ordigni lanciati da caccia. Il terzo: le scorte dell’artiglieria sono insufficienti, i reparti devono selezionare la risposta e questo favorisce gli occupanti.

Kiev non ha margini per contrattaccare, deve proteggersi e affidarsi ai droni o a qualche missile prendendo di mira obiettivi in profondità: colpite basi e diverse raffinerie mentre è stato usato di recente un nuovo velivolo senza pilota, spinto da un motore jet di produzione tedesca. Operazioni che rispondono, in minima parte, agli strike continui della Russia, in grado di «lanciare» ondate su ondate di missili e droni, come gli Shahed di concezione iraniana e quelli realizzati dall’industria locale. Tutto con un alto ritmo di produzione.

Gli ucraini non escludono — secondo l’Economist — che Mosca voglia rendere invivibile la città di Kharkiv, sottoposta a una serie di strike prolungati: conquistarla militarmente è difficile e allora la devastano per costringere gli abitanti ad andarsene.

Corriere della Sera, 8 aprile 2024 (prima pagina, pag 9)

Elezioni Usa 2024, i primi sondaggi: Trump è in vantaggio su Biden in 6 dei 7 Stati decisivi

Donald Trump è in vantaggio su Joe Biden in sei dei sette Stati che decideranno le presidenziali di novembre, sostiene un sondaggio del Wall Street Journal, mentre il settimo è in pareggio. A sette mesi (e due giorni) dalle elezioni sono dati che valgono poco, gli equilibri cambieranno più volte, ma sei indizi costituiscono di certo una prova: in Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina e Pennsylvania l’ex presidente – che nel 2020 li aveva persi tutti, tranne la North Carolina – ha un vantaggio compreso fra 1 e 6 punti, mentre il Wisconsin è in pareggio. Prendendo in considerazione anche la presenza di candidati indipendenti e di terzi partiti, come Robert Kennedy Jr., il vantaggio di Trump aumenterebbe di poco nei sei Stati, fra i 2 e gli 8 punti, mentre in Wisconsin Biden sarebbe avanti di tre punti.

Cosa ci dicono i dati: insoddisfazione per l’economia, dubbi su Biden

Al di là di questi numeri, che vanno maneggiati con assoluta cautela, il rilevamento del quotidiano conservatore — effettuato su 600 elettori registrati in ognuno degli Stati in bilico e condotto fra il 17 e il 24 marzo — mostra una generale insoddisfazione per la situazione economica degli Stati Uniti (a dispetto di quanto dicono i dati ufficiali) e conferma i dubbi sulle capacità e sui risultati di Biden, che vede anche calare il sostegno di tre minoranze fondamentali della sua coalizione: neri, ispanici e giovani. Trump è visto come il candidato che può risollevare l’economia, ma Biden ha una carta vincente: è considerato il candidato che proteggerà il diritto all’aborto, questione decisiva alle elezioni di metà mandato.

La situazione economica nazionale e quella statale

Per interpretare il sondaggio vanno guardati i numeri, tenendo conto che a influenzare l’oscillazione delle percentuali non saranno solo le dinamiche nazionali, come i processi di Trump o i risultati ottenuti da Biden, ma anche quelle statali, a cominciare — ovviamente, direbbe James Carville, il consulente di Bill Clinton che nel 1992 coniò la celebre frase «It’s the economy, stupid» — dall’economia locale: in molti casi, nota il Journal parlando di «dinamica inusuale», i 4.200 elettori interpellati nei sette Stati sono preoccupati dall’inflazione e dall’economia nazionale, ma poi riconoscono che le condizioni a livello statale sono buone.

Come era andata nel 2016

Nel 2016 Trump divenne presidente grazie a 80 mila voti distribuiti proprio fra Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, tre Stati che nel 2020 sono stati conquistati da Biden, ma vinse anche in Arizona, Georgia e North Carolina lasciando a Hillary Clinton (di questi 7) soltanto il Nevada, dove il vantaggio democratico oggi si sta assottigliando. Quattro anni dopo, Biden vinse ovunque tranne che in North Carolina, oggi considerato più in bilico, ma superò Trump di un pugno di voti (41 mila totali) in Arizona, Georgia e Wisconsin, un margine inferiore al punto percentuale.

Perché alcuni Stati sono davvero decisivi

Per mettere i numeri in prospettiva si può partire da qui, e capire quanti di questi Stati i due candidati possono permettersi di perdere alle elezioni di novembre. Per diventare — o restare — presidente servono 270 voti elettorali, nel 2016 Trump ne ottenne 304 (prendendo meno voti di Hillary Clinton), nel 2020 Biden 306 (e Trump 232). Dopo l’ultimo censimento, l’Arizona assegna 11 voti, la Georgia 16, il Michigan 15, il Nevada 6, la North Carolina 16, la Pennsylvania 19 e il Wisconsin 10: in totale fanno 93 voti elettorali. E di una cosa possiamo essere certi: saranno quelli decisivi.

Corriere della Sera, 3 aprile 2024

Cosa sono le bombe plananti che i russi usano per colpire l’Ucraina

Le bombe plananti russe devastano le posizioni ucraine, uccidono i civili, come è avvenuto nelle scorse ore a Kharkhiv, presa di mira da un raid dove sarebbe stata usata una Umpb D-30. «È un incrocio fra un bomba guidata e un missile», ha spiegato Oleh Synehubov, governatore dell’oblast di Kharkiv dove stanotte è morta una persona e altre 16 sono rimaste ferite. «Una sorta di bomba volante che i russi hanno deciso di testare sui cittadini».

Gli invasori hanno iniziato l’impiego di questi ordigni nei primi mesi del 2023, trasformando bombe tradizionali in sistemi più precisi con l’aggiunta di un kit di guida e alette. Sono lanciate da caccia che volano a 40-50 chilometri di distanza dalla linea del fronte, al riparo dagli apparati anti-aerei dell’Ucraina. E il loro impatto è cresciuto in modo esponenziale, con centinaia — forse migliaia di «plananti» — tirate contro obiettivi diversi, in particolare le postazioni sulla linea del fronte.

Una scelta dovuta a tre ragioni: sono una soluzione a basso costo in quanto spesso sono riconvertite armi non recenti; hanno una potenza notevole; rappresentano un’alternativa ai missili. Al munizionamento giacente nei depositi si sono aggiunti i «pezzi» prodotti con alto ritmo dall’industria nazionale: oltre alla FAB500 e 1500 sarebbe pronta la versione 3000 da tre tonnellate. Secondo gli osservatori, durante le battaglie dei mesi scorsi, il martellamento con questi ordigni si è rivelato molto efficace, forse anche perché le strutture di protezione non erano sufficienti a incassare colpi così duri.

Kiev, infatti, ha deciso di fornire le sue truppe di nuove difese, chiamate a contrastare possibili offensive fino all’estate. Lo stesso presidente Volodymyr Zelensky ha compiuto un’ispezione durante la quale ha visitato bunker, trincee profonde, costruzioni in cemento realizzate dai genieri. Molti anche i denti di drago — ostacoli sempre in cemento — disseminati davanti alle posizioni a far da ostacolo. La visita è stata documentata con diffusione di video e foto proprio per sottolineare l’importanza di contromisure che avrebbero dovuto essere create molto prima.

Gli ucraini, in attesa che riprendano in modo sostenuto gli aiuti occidentali, stanno moltiplicando gli sforzi per migliorare la produzione locale di armamenti e cercano soluzioni semplici. L’esperto HI Sutton ha dedicato un breve post ad un drone d’attacco davvero rustico: ha un piccolo motore, le ali in alluminio, la parte centrale è rappresentata da un tubo di plastica per uso idraulico, il serbatoio realizzato con due bottiglie per l’acqua, la carica esplosiva ricavata dal recupero di materiale bellico. Un progetto veloce che affianca però quello per equipaggiamenti più sofisticati con in quali compiere incursioni in profondità nel territorio russo, spesso contro le raffinerie di carburante.

Corriere della Sera, 28 marzo 2024

Cosa serve all’Ucraina per salvarsi?

I russi potrebbero dare una nuova «spallata» tra la primavera e l’estate sfruttando la loro superiorità su un fronte di mille chilometri. Gli ucraini, invece, dipendono dagli aiuti occidentali e da alcuni punti chiave.

REPARTI

Kiev deve riorganizzare i reparti, concedere rotazioni, rimpiazzare i tanti caduti, sostituire i mezzi perduti (tank, blindati, logistica). Secondo alcune stime sono necessari 500 mila uomini, ma al momento il governo di Volodymyr Zelensky vuole evitare la mobilitazione massiccia che ha causato forti frizioni interne. Deve inoltre mantenere una quota di circa 700 mila persone utilizzate in settori essenziali. Mosca ha perso sul campo migliaia di uomini, però ha un bacino di arruolamento ampio che viene integrato da volontari ingaggiati all’estero: Cuba, Nepal, India.

MUNIZIONI

Per resistere ad un’offensiva nemica — scrivono gli esperti — gli ucraini hanno bisogno in media di 75-90 mila proiettili d’artiglieria al mese, cifra che sale a 200-250 mila se volessero andare all’attacco: al momento ne sparano circa 2 mila al giorno, contro i 10 mila dei russi. Kiev non li ha, ha ceduto terreno perché le sue batterie avevano scorte limitate. La Russia, per contro, produce 250 mila proiettili al mese e sta raggiungendo una quota di 3 milioni all’anno, ai quali si sommano le forniture di Nord Corea e Iran (da uno a tre milioni, dato approssimativo).

Diversi Paesi occidentali, su iniziativa della Repubblica Ceca, cercano di far arrivare 800 mila proiettili. L’Unione Europea ha appena precisato che ne saranno consegnati altri 550 mila da 155 mm entro la fine di marzo, mentre Kiev ne ha acquistati 350 mila. Vedremo se saranno rispettate le date. C’è poi un dettaglio legato alla standardizzazione del materiale: gli ucraini schierano cannoni con calibro diverso in quanto hanno pezzi di concezione sovietica e altri Nato, che non sono compatibili.

Industria

Per Kiev è cruciale aumentare la produzione bellica, quella locale e quella all’esterno in collaborazione con i partner. Ci sono progetti, buone intenzioni, rischi. I siti strategici sono costantemente presi di mira dall’avversario che ha la possibilità, a sua volta, di attingere ai depositi: nel corso del 2023 i russi hanno riattivato 1.200 tank e 2.500 blindati; riescono a produrre o modernizzare 200 carri al mese. Le previsioni sostengono che possono proseguire per almeno due anni, in parallelo il Cremlino ha rinvigorito l’industria sotto tutti gli aspetti. L’Ue ha risposto varando un pacchetto da 5 miliardi di euro.

Difese

Agli uomini di Zelensky serve la realizzazione di difese in profondità (almeno tre linee), con trincee ben protette, bunker, strutture pesanti, campi minati estesi, postazioni di tiro. Inspiegabilmente (ma anche per mancanza di fondi) l’Ucraina non le ha costruite in modo adeguato ed ora è costretta a «inseguire». Per farlo occorrono mezzi, materiale, tecnica in quantità. Cosa che gli invasori hanno attuato sotto la guida del generale Surovikin.

Droni

I droni non possono sostituire i cannoni su vasta scala, tuttavia hanno mostrato un grande impatto sul campo di battaglia. In parte sono modelli civili modificati per trasportare ordigni, impiegati con successo contro veicoli e soldati. Gli ucraini li realizzano «in casa» e li ricevono dai donatori, gliene servono migliaia e c’è un impegno degli alleati a spedirne ancora. Ma hanno un lato «debole»: i russi li neutralizzano con contromisure elettroniche, così come disturbano le armi di precisione (tipo Himars). Al tempo stesso Kiev ha il compito di migliorare i velivoli senza pilota (di concezione militare) per le incursioni a lungo raggio. Di recente ne ha lanciati alcuni con capacità di mille chilometri.

Lo scudo

La Russia ha superiorità aerea, un vantaggio netto in termini di missili e droni kamikaze (come gli iraniani Shahed). Contro questa minaccia multipla gli ucraini hanno cercato di arrangiarsi. I sistemi dati dall’Alleanza hanno potuto solo contenere i danni, non bastano, i rifornimenti sono insufficienti, la difesa è costretta a dividerli tra la protezione delle città e dei reparti. Oggi gli ucraini possono intercettare un missile su cinque — segnalano fonti al Washington Post — in quanto i depositi si stanno esaurendo.

E non c’è rimedio contro le incursioni delle bombe plananti ad alto potenziale, ordigni tradizionali modificati con l’inserimento di kit e lanciabili dai caccia che restano al di fuori della portata dell’antiaerea. Ne sono state usate centinaia. Solo nei primi tre mesi del 2024 ne sono state usate 3.500. Gli strike con queste armi, disponibili in gran numero e poco costose rispetto ad equipaggiamenti sofisticati, hanno provocato distruzioni importanti. L’arrivo nei prossimi mesi dei primi F16 occidentali rappresenterà un miglioramento, ma non è abbastanza per colmare il divario.

Lungo raggio

Sulle armi a lungo raggio continuerà a esserci una disparità. L’Ucraina si affida a droni per colpire il territorio russo (in questi giorni una dozzina di raffinerie in fiamme) ma non ha quei missili che rappresentino il salto di qualità, ovvero apparati con i quali centrare target a 300 chilometri di distanza. La Nato non ha mai voluto fornirli limitandosi a equipaggiamenti con raggio limitato agli 80-150 km, una scelta — è stato detto più volte — per non aggravare lo scontro con Vladimir Putin. Che, invece, scarica tutto ciò che ha sulle città ucraine.

In mare

Intelligence e forze scelte hanno portato colpi pesanti alla Flotta russa del Mar Nero, affondando molte unità con missili e soprattutto droni navali. Un’evoluzione costante, con la messa a punto di modelli e tattiche. Il passo successivo è il ricorso a siluri (già promessi dagli svedesi) e di piattaforme speciali subacquee che possano lanciarli: la ricerca da parte di Kiev è in corso da tempo, resta da capire se qualche Stato occidentale è pronto a collaborare.

Corriere della Sera, 20 marzo 2024 (pag 11)

Lituania, europeista e con Kiev: la linea non cambierà

Pur essendo un Paese relativamente piccolo, con 2,7 milioni di abitanti, la Lituania si ritrova al centro delle due principali sfide geopolitiche della nostra era. Da un lato c’è quella con la Russia, che ha motivi geografici e storici che si sono consolidati dopo l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022, con Vilnius che si è contraddistinta fra i più tenaci sostenitori della resistenza. Dall’altro quella con la Cina, perché nel novembre del 2021 il governo di Vilnius ha autorizzato l’apertura del primo ufficio di rappresentanza di Taiwan — invece che di Taipei, come pretende la Cina — nel continente europeo, scatenando la reazione rabbiosa di Pechino che ha troncato ogni rapporto politico e commerciale con lo Stato baltico e che continua a chiedere di «correggere l’errore».

Indipendente dal 1990, dal 2004 membro di Unione europea e Nato, nel 2024 la Lituania si recherà alle urne tre volte: il 12 maggio – con eventuale ballottaggio due settimane dopo se nessun candidato riceverà la maggioranza assoluta – per eleggere il prossimo presidente che resterà in carica cinque anni, a giugno per le europee come il resto dell’Unione, il 6 ottobre per rinnovare il Seimas, il Parlamento da 141 seggi che resta in carica per quattro anni.

A contendersi la guida del Paese – al presidente spetta la supervisione di Esteri e Sicurezza, nonché la guida delle forze armate – sono tredici candidati, fra i quali svettano due dei più importanti politici del Paese che si sono già affrontati cinque anni fa: l’attuale presidente Gitanas Nauseda, 59 anni, economista indipendente che nel 2019 ottenne al ballottaggio il 66% delle preferenze e ha confermato la propria ricandidatura a inizio dicembre, e Ingrida Šimonyte, 49 anni, ex ministra delle Finanze e attuale premier conservatrice che ha deciso di riprovarci. Terzo incomodo è Ignas Vegele, ex leder dei Cristiano democratici e ora candidato indipendente: potrebbe sfilare il ruolo di sfidante alla premier, che supera a destra soprattutto sulle questioni sociali.  

Nauseda è tuttavia di gran lunga il politico più popolare del Paese, tanto che l’unica incognita sembra riguardare la necessità o meno di un ballottaggio. Chiunque la spunterà, in ogni caso, non dovrebbe modificare la traiettoria geopolitica del Paese: europeista, sostenitore dei valori occidentali, al fianco di Kiev. «Siamo stati fra i primi a mettere in guardia le democrazie occidentali riguardo a Putin», aveva detto al Corriere la premier Šimonyte poco dopo l’inizio del conflitto. «Noi siamo un buon esempio di cosa vuol dire essere in club come l’Ue e la Nato, e della differenza che può fare per un Paese come l’Ucraina essere parte dell’Ue».

7 XXL, 15 marzo 2024 (pag 5)

Rupert Murdoch si sposa per la quinta volta, a quasi 93 anni: nozze a giugno con Elena Zukhova

Lo «Squalo» si sposa, a quasi 93 anni, per la quinta volta. Il magnate dei media Rupert Murdoch, che a settembre aveva lasciato l’impero di News Corporation e Fox News al figlio Lachlan, ha annunciato che a giugno convolerà a nozze con la sua nuova fidanzata, Elena Zhukova, 67 anni, una biologa molecolare in pensione conosciuta grazie alla terza moglie Wendi Deng. La cerimonia è stata organizzata fra i vigneti della tenuta californiana di Moraga, a Los Angeles, e gli inviti — hanno precisato dall’ufficio di Murdoch, che compirà 93 anni l’11 marzo — sono già stati spediti.

La coppia ha iniziato a frequentarsi la scorsa estate, poco dopo che il miliardario australiano — patrimonio di 9 miliardi, secondo l’indice di Forbes — aveva all’improvviso annullato le nozze previste con la giornalista radiofonica Ann Lesley Smith, 66 anni, ex igienista dentale ed ex cappellana volontaria nelle carceri di San Francisco — Murdoch, secondo Vanity Fair, si sentiva a disagio per le idee evangeliche della futura moglie — che aveva conosciuto proprio durante un ricevimento a Moraga e con la quale si era fidanzato sei mesi dopo la rotturapare via mail — con la quarta consorte Jerry Hall.

Con la modella, ed ex partner di Mick Jagger, si era sposato nel 2016 a Londra, dopo aver annunciato il fidanzamento sul Times, e aveva divorziato nell’estate del 2022. In precedenza era stato sposato dal 1956 al 1967 con Patricia Booker, una assistente di vola australiana dalla quale ha avuto la figlia Prudence nel 1958, e poi per 32 anni con Anna Torv, una reporter scozzese che lavorava per uno dei suoi giornali a Sydney, il Daily Mirror, e con la quale ha avuto Elisabeth (1968), Lachlan (1971) e James (1972).

A giugno del 1999, appena 17 giorni dopo aver divorziato da Torv, Murdoch ha sposato a bordo del suo yacht «Morning Glory» Wendi Deng, una trentenne cinese appena uscita dalla School of Management di Yale, che lavorava per la sua Star Tv, televisione con sede a Hong Kong. Da lei ha avuto le ultime due figlie — Grace nel 2001, alla quale fece da padrino Tony Blair, e Chloe nel 2003 (a 73 anni) — prima di divorziare a giugno del 2013: a quel punto, spiegarono i portavoce di News Corporation, «il matrimonio si era irrimediabilmente rotto già da sei mesi». E così, dopo il fallimento del matrimonio con Hall e i piani saltati con Smith, dopo sei figli e tredici nipoti, è arrivato il turno della quinta signora Murdoch.

Elena Zukhova è arrivata negli Stati Uniti da Mosca al tramonto dell’Unione Sovietica con l’ex marito Alexander Zhukov: lui ha fatto miliardi investendo nel settore energetico e oggi risiede a Londra con cittadinanza britannica; lei si è distinta per i suoi studi sul diabete a Ucla, l’università della California a Los Angeles. I due hanno anche una figlia, Dasha, collezionista d’arte e filantropa che fino al 2017 era sposata con l’oligarca Roman Abramovich, noto alle cronache sportive per essere stato — con successo — il proprietario del Chelsea, a quelle geopolitiche per aver tentato — senza successo — di mediare nella guerra russo-ucraina.

Corriere della Sera, 8 marzo 2024 (pag 13 del 9 marzo)

Marshall Ganz: «Trump mobilita la sua base attorno alla paura, Biden sa umanizzare la leadership»

«Il movimento di Barack Obama si basava sulla speranza, quello di Donald Trump è incentrato sulla paura», spiega al Corriere della Sera Marshall Ganz, professore di leadership, organizzazione e società civile a Harvard, l’uomo che ideò la campagna popolare, che nel 2008 contribuì a portare Obama alla Casa Bianca. Otto anni dopo, anche Trump è diventato presidente riuscendo a mobilitare — in modo diverso — la propria base, grazie alla quale ora punta a essere rieletto. «Con la paura costruisci una dipendenza verso la fonte di sicurezza, il leader».

E con la speranza?
«La speranza occupa quello spazio fra la fantasia e la certezza, è il campo delle possibilità. È sempre probabile che Golia vinca, ma a volte ci riesce Davide. È improbabile, come lo era che un uomo nero diventasse presidente di questo Paese nel 2007, ma è successo. Bisogna ispirare il senso di capacità delle persone, la volontà d’azione individuale e collettiva. Questo porta in una direzione costruttiva. Se metti a confronto Obama e Trump, hai due direzioni opposte verso cui andare».

In quale direzione ha portato Obama?
«La speranza richiede azione. E penso che il successo che avemmo in quella campagna con Obama purtroppo non fu fatto fruttare nei primi due anni della sua presidenza. La tragedia fu che avevamo una base vastissima, ma lui preferì minimizzare l’opposizione invece di massimizzare il sostegno. Questa scelta lo portò in una direzione sbagliata, si creò un vuoto che associato alla crisi del 2008, con la gente che perdeva la casa, cominciò a creare una base per Trump. Lo dico con rammarico, perché penso che Obama sia una brava persona e avesse buone intenzioni. Ma se siamo a questo punto, ha molto a che fare con quei primi due anni».

Lei che ruolo aveva nella campagna di Obama?
«Io sviluppavo il movimento grassroots, dal basso. Negli Stati Uniti abbiamo un’industria del marketing politico che macina miliardi e confonde la politica e il marketing. C’era voglia di qualcosa di diverso: vincemmo anche perché lavorammo sull’attività di organizzazione locale, sullo sviluppo della leadership. Non chiedevamo alle persone soltanto di mandare email».

Ha un ricordo particolare di quell’esperienza?
«La notte che perdemmo in New Hampshire, quella in cui da una sconfitta nacque la frase “Yes We Can”. La mattina dopo incontrai Obama a colazione qui a Boston. Prima ancora che potessi dirgli qualcosa, venne verso di me e mi disse: “Lo so, lo so. Dobbiamo lavorare sull’organizzazione”. Fu un momento speciale».

È una lezione che ha imparato anche Trump.
«Non è che non avesse una dimensione organizzativa. Le chiese evangeliche sono state una base per Trump, oppure i poligoni. Ma è una politica diversa: qualcuno dice del risentimento, io direi piuttosto della rabbia. Prende questa forma perché non c’è fiducia che le cose possano cambiare davvero. Alle ultime elezioni, i luoghi che avevano più speranza riguardo al futuro hanno votato per Biden, quelli che ne avevano meno hanno scelto Trump. Trump è un surrogato: ogni volta che prende a calci qualcuno, e cose se fosse l’elettore a farlo».

Trump ha davvero più leadership di Biden?
«Bisogna distinguere fra leadership e demagogia. La leadership non è controllo, ma legittimazione: non è una lotta solitaria, ma la capacità di stimolare un’evoluzione collettiva. Trump è un demagogo molto potente, ma è un pessimo leader perché non fa nulla per accrescere il potere della sua gente. Anzi, ne sfrutta le debolezze».

E Biden?
«Sa umanizzare la leadership, questo gli permette di connettersi con le persone. E ha ottenuto risultati notevoli, ne stiamo vedendo le conseguenze economiche. Ovviamente ha i suoi problemi. Trump è “Yes I Can”, Obama era “Yes We Can”: è una differenza enorme. Biden avrebbe bisogno di questo, di rendere la sua storia quella di tutti».

Corriere della Sera, 8 marzo 2024 (pag 16)

Palmer, lo sconosciuto che batte il presidente alla periferia dell’impero

Jason Palmer è il primo sfidante a sconfiggere Joe Biden nelle primarie democratiche per la Casa Bianca. È un risultato sorprendente per un presidente in carica, un po’ meno se si osservano i dettagli: Palmer ha conquistato il 56% dell’elettorato delle Samoa americane, territorio non incorporato del Pacifico che vota per le primarie ma non alle elezioni di novembre, ottenendo 51 voti contro i 40 del presidente. Alle urne si sono recati appena 91 elettori su 44 mila abitanti e il risultato, come hanno prontamente specificato i funzionari del locale partito democratico, è tecnicamente un pareggio: entrambi hanno ottenuto 3 delegati.

Resta la storia, quella di un totale sconosciuto che ha preso più voti del presidente ai confini dell’impero. «Probabilmente vi state chiedendo chi è Jason Palmer», diceva lui stesso in uno dei suoi video, raccontando la sua vita da imprenditore tecnologico e venture capitalist che vuole ricostruire il sogno americano.

Nato a Baltimora, 52 anni, Palmer è partner di New Markets Venture Partners, ha lavorato per la Bill and Melinda Gates Foundation e per Microsoft, non ha mai fatto politica e si è candidato alla presidenza a novembre. Ha finanziato la sua campagna elettorale con 500 mila dollari — «perché non puoi portarteli nella tomba, ma puoi cambiarci il mondo finché sei qua» — ed è entrato nelle schede in 16 Stati.

Finora aveva ricevuto 672 voti in tutto fra Nevada e New Hampshire ed era stato l’unico candidato a fare campagna elettorale alle Samoa, dove ha un team di tre persone, senza metterci piede ma incontrando gli elettori via Zoom: prometteva un miglior accesso alla sanità, più risorse per l’istruzione e un impegno aggressivo per limitare gli effetti del cambiamento climatico.
Così ha conquistato questo arcipelago — cinque isole e due atolli a oltre 10 mila chilometri da Washington — che ogni quattro anni restituisce un risultato a sorpresa per i democratici: nel 2016 furono più i voti «uncommitted» che quelli per Hillary Clinton e Bernie Sanders, nel 2020 Michael Bloomberg ottenne qua la sua unica vittoria.

A dicembre Palmer aveva partecipato al «Forum dei candidati meno conosciuti» del New Hampshire Institute of Politics, che lo aveva inserito fra coloro che non hanno alcuna riconoscibilità. Quando ha vinto alle Samoa, martedì sera, il suo volto sorridente è apparso su tutti gli schermi americani e il suo sito è andato in crash, affossato dalle ricerche di chi voleva scoprire chi fosse.

«C’è una persona di nome Jason Palmer che ha fatto un’intensa campagna elettorale alle Samoa», ha affermato la giornalista di Nbc Rachel Maddow nel dare la notizia. «Il vincitore delle primarie democratiche alle Samoa americane è quella persona: Jason Palmer».

Corriere della Sera, 7 marzo 2024 (pag 4)

Tutti i tentativi dei russi di uccidere Zelensky: dai mercenari di Kadyrov alle forze speciali

Estate di un anno fa. I servizi ucraini si interessano a una donna, sospettata di raccogliere informazioni per conto dei russi nella regione di Mykolaiv. La talpa cerca dettagli particolari, secondo Kiev è parte di un piano per uccidere il presidente Volodymyr Zelensky durante una visita nella zona, probabilmente con «un massiccio bombardamento aereo». L’informatrice non verrà arrestata subito, ma le daranno un po’ di briglia — così racconteranno le fonti ufficiali — per ricostruirne i contatti.

La presunta operazione è una delle tante mosse del controspionaggio ucraino per proteggere il leader, diventato un bersaglio di alto valore per Mosca. Un’azione che si è intensificata nei primi giorni dell’invasione, con l’aiuto degli occidentali e in particolare della Cia. Ormai è storia: il direttore dell’agenzia William Burns ha informato l’alleato sulle linee d’attacco dei russi e su un progetto di attentato affidato a un nucleo di commandos di forze speciali paracadutate a Kiev per catturarlo con la famiglia e neutralizzate alla base di Hostomel nelle prime ore del conflitto.

L’intervento di Burns, unito alla decisione di Zelensky di restare nella capitale e non trasferirsi a ovest come suggeriva Washington, ha evitato il tracollo iniziale. Decisivi, sempre in quei giorni drammatici, sono stati gli errori di analisi da parte degli agenti del Cremlino e la mancata sponda di collaborazionisti ben pagati per favorire un cambio di potere.

In seguito, sono uscite altre notizie su possibili manovre studiate dall’intelligence russa nell’intento di far fuori il presidente: il segretario del Consiglio di sicurezza nazionale Oleksiy Danilov disse che Zelensky era sopravvissuto a tre tentativi di omicidio in una settimana, ma per il consigliere presidenziale Mykhailo Podolyak sono stati almeno 12.

Viene spesso citato il progetto affidato a un gruppo ceceno messo a disposizione dal dittatore Ramzan Kadyrov, uomini scelti incaricati di compiere sabotaggi e se possibile arrivare a eliminare il presidente. In una ricostruzione degli ucraini la minaccia sarebbe stata sventata alla periferia di Kiev il 26 febbraio 2022, grazie alla soffiata di un funzionario dell’Fsb russo in contrasto con la linea ufficiale. Difficile dire quanto sia vera questa versione.

Nel duello della propaganda non si risparmiano bugie, contro-informazione, verità alterate, accuse reali. Senza tralasciare un aspetto rilevante: gli ucraini non hanno esitato a colpire nel cuore della Russia eliminando figure rappresentative, la loro guerra «segreta» è diventata una strategia e anche un modo per compensare rovesci.

Minacce ed episodi hanno spinto la coalizione che appoggia la resistenza a creare un triplice cerchio di sicurezza, come raccontato dal Corriere nell’aprile del 2022. La prima è rappresentata dalla scorta ravvicinata, che fa da scudo nelle uscite pubbliche mentre altri militari vegliano su cibi, biancheria, lenzuola, qualsiasi cosa possa venire contaminata con sostanze tossiche, l’arma preferita dai sicari di scuola «sovietica». La seconda e la terza cintura, in collaborazione con gli anglo-americani, devono garantire la riservatezza degli spostamenti, la bonifica degli uffici, rifugi, eventuali vie di sganciamento in caso di situazioni estreme. Ampio il ricorso alla tecnologia, ai satelliti, a un arsenale elettronico vastissimo messo a disposizione dagli occidentali con il supporto di satelliti, voli di ricognizione, componente umana.

Quanto è avvenuto nelle scorse ore a Odessa, con il lancio di un solo missile, non sembra avere le caratteristiche di un’azione diretta al convoglio ufficiale, anche se l’ordigno è esploso nelle vicinanze. Può essere stata una coincidenza oppure un segnale indiretto: è già accaduto che gli invasori abbiano bombardato in occasione di visite ufficiali, come quella a Kiev del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres nell’aprile 2022.

Corriere della Sera, 7 marzo 2024 (prima pagina, pag 3)

Jason Palmer, chi è lo sconosciuto che ha sconfitto Joe Biden alla primarie delle Samoa americane

Jason Palmer è il primo sfidante a sconfiggere Joe Biden nelle primarie democratiche per la Casa Bianca, con un’affermazione a sorpresa nel Super Tuesday (qui tutti i risultati). «Ho scoperto di aver vinto perché il telefono mi è esploso di messaggi», ha raccontato a caldo. Si tratta di un risultato sorprendente per un presidente in carica, un po’ meno se si osservano i dettagli: Palmer ha conquistato il 56% dell’elettorato delle Samoa americane, territorio non incorporato del Pacifico che vota per le primarie ma non alle elezioni di novembre, ottenendo 51 voti contro i 40 del presidente degli Stati Uniti. Alle urne si sono recati dunque appena 91 elettori su 44 mila abitanti e il risultato, come hanno prontamente rettificato nel cuore della notte americana i funzionari del locale partito democratico, è tecnicamente un pareggio: il 56% di Palmer equivale a 3,4 delegati, il 44% di Biden a 2,6. Entrambi, arrotondando, ne hanno dunque ottenuti 3.

Resta la storia, quella straordinaria di un totale sconosciuto che ha preso più voti del presidente ai confini dell’impero. «Probabilmente vi state chiedendo chi è Jason Palmer», diceva lui stesso in uno dei video della campagna elettorale, raccontando la sua vita da imprenditore tecnologico e venture capitalist che vuole ricostruire il sogno americano svanito. Nato a Baltimora, 52 anni, Palmer finora aveva ricevuto 672 voti in tutto fra Nevada e New Hampshire ed era stato l’unico candidato a fare campagna elettorale «virtuale» alle Samoa, un arcipelago — cinque isole e due atolli a 4 mila chilometri dalle Hawaii — che ogni quattro anni restituisce un risultato a sorpresa per i democratici: nel 2016 furono più i voti «uncommitted» che quelli per Hillary Clinton e Bernie Sanders, nel 2020 l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg ottenne qua la sua unica vittoria.

Alle Samoa — doveva aveva una squadra di tre persone — Palmer aveva puntato tutto su tre argomenti: un miglior accesso alla sanità, maggiori risorse per l’istruzione e un impegno aggressivo per limitare gli effetti del cambiamento climatico. Nelle scorse settimane aveva anche chiesto un cessate il fuoco per Gaza, questione che ha rallentato Biden in molti Stati, e dopo la vittoria alla Samoa ha promesso di «aggiustare» il sistema di regolamentazione dell’immigrazione, altro tema rovente di questa campagna. «Joe Biden è stato un grande servitore pubblico per 50 anni», ha affermato dopo la vittoria, sottolineando il fatto di essere di gran lunga il più giovane in gara. «Quattro anni fa ho votato per lui, ma vogliamo un candidato più giovane ed energico che possa sconfiggere Donald Trump».

Palmer è partner di New Markets Venture Partners, ha lavorato in precedenza per la Bill and Melinda Gates Foundation e per Microsoft, non ha mai avuto incarichi politici e si è candidato alla presidenza a novembre. Ha prestato alla sua campagna elettorale 500 mila dollari — «perché non puoi portarteli nella tomba, ma puoi cambiarci il mondo finché sei qua» — ed è partito. Lui stesso definiva questa corsa «una scommessa senza molte possibilità di vincere», ma «focalizzata più sulle idee, sulle soluzioni e su un cambiamento nel discorso pubblico». La cosa importante, chiariva, «è impedire a Trump di tornare alla Casa Bianca per un secondo mandato».

Lo scorso anno aveva partecipato al «Forum dei candidati meno conosciuti» del New Hampshire Institute of Politics, che lo aveva inserito fra coloro che non hanno alcuna riconoscibilità. Quando ha vinto alle Samoa, martedì sera, il suo volto sorridente è apparso su tutti gli schermi americani. «C’è una persona di nome Jason Palmer che ha fatto un’intensa campagna elettorale alle Samoa, è un venture capitalist che ha preso 130 voti in New Hampshire e 512 in Nevada», ha affermato la giornalista di Nbc Rachel Maddow nel dare la notizia. «Questa sera Nbc News comunica che il vincitore delle primarie democratiche alle Samoa americane è quella persona: Jason Palmer».

Corriere della Sera, 6 marzo 2024

Nikki Haley, primo (inutile) successo a Washington: «Non corro da sola»

Nikki Haley ha vinto le primarie repubblicane a Washington, ottenendo nella capitale americana il primo successo contro Donald Trump e un bottino di 19 delegati. Quella di Haley è una affermazione ininfluente nella corsa alla nomination — l’ex presidente finora ha trionfato ovunque e ha un enorme vantaggio in termini di delegati: 247 a 43 — ma al tempo stesso di portata storica: l’ex governatrice della South Carolina è la prima donna a vincere una primaria repubblicana.

La corsa di Haley potrebbe però terminare già stasera quando arriveranno i risultati del «Super Tuesday», il super martedì in cui vanno alle urne gli elettori di 15 Stati e delle Samoa americane, che assegneranno un totale di 874 delegati, un terzo di quelli in palio in queste primarie.

Trump dovrebbe ottenerne abbastanza da chiudere la pratica, la sua campagna ne stima almeno 773, ma Haley ha dimostrato che una buona percentuale degli elettori non vuole vedere l’ex presidente sulle schede per la terza volta. Questo — insieme alla rottura ormai netta con Trump, che ha lasciato intendere di non voler appoggiare — alimenta le speculazioni su una sua corsa da indipendente per un terzo partito, magari con il movimento bipartisan No Labels che ha già sondato senza successo il moderatissimo senatore democratico della West Virginia Joe Manchin e l’ex governatore repubblicano del Maryland Larry Hogan.

Correndo da indipendente Haley danneggerebbe Trump, ma ha smentito questa possibilità nei giorni scorsi. «Non mi ha contattato nessuno», ha chiarito. «Hanno mandato segnali di fumo, ma io resto una repubblicana. Con No Labels servirebbe un democratico come vice, e non sarei in grado di fare quello che vorrei come presidente».

L’ex ambasciatrice americana all’Onu resta dunque in corsa per le primarie, ragionando a breve e medio termine: a una convention aperta nel caso Trump sia costretto a ritirarsi improvvisamente, oppure alle elezioni 2028, quando sarebbe in prima fila fra i candidati conservatori.

A Washington — 677 mila abitanti e appena 23 mila elettori repubblicani registrati — Haley ha ottenuto il 62,9% dei voti, contro il 33,2% di Trump, per nulla amato nella capitale: alle urne del Madison Hotel si sono presentati soltanto 2.035 elettori e in gran parte hanno votato Haley.

«È appena stata incoronata regina della palude», ha commentato Karoline Leavitt, portavoce della campagna di Trump, ricorrendo alla consueta definizione usata per gli intrighi politici della capitale americana. «È stata rifiutata nel resto d’America, ma non dai lobbisti che vogliono mantenere lo status quo».

Corriere della Sera, 5 marzo 2024 (pag 12)

Gli incredibili record di Caitlin Clark

«Non abbiamo mai visto una donna giocare così», ha affermato su Espn Rebecca Lobo, una che di basket femminile se ne intende essendo stata una stella della Wnba a cavallo del millennio. Nessuno, intendeva, ha mai giocato a basket come Caitlin Clark, la guardia della University of Iowa che ieri è diventata la più prolifica marcatrice nella storia del basket universitario americano, maschile e femminile, superando il record di «Pistol» Pete Maravich — 3.667 punti segnati tuttavia prima dell’introduzione della linea dei tre punti e in tre stagioni — che resisteva dal 1970. «E il suo totale di punti», ha specificato Lobo, «per quanto enorme e ora senza pari, racconta solo parte della storia».

Quella di Clark è una storia di record frantumati uno dopo l’altro per quattro anni, primati femminili e maschili superati sul parquet di Iowa City, una cittadina universitaria dell’Iowa, lo Stato in cui è nata — il 22 gennaio 2002, a West Des Moines — e dove ha attirato milioni (senza esagerare) di spettatori per assistere alle sue partite, tutte rigorosamente soldout: a ottobre, per l’esordio della sua squadra, si erano presentate 55.646 persone, un altro record storico per il basket femminile, mentre per la partita del record di domenica il prezzo medio era dei biglietti era di 550 dollari. Ovviamente un record, come anche i 2,5 milioni di spettatori che hanno assistito in tv alla finale Ncaa persa lo scorso anno.

Caitlin Clark aveva già, fra gli altri, il primato di assist, di triple (spesso da 8 metri), di tiri liberi e di punti nel basket femminile, di figurina autografata più costosa per una cestista (78 mila dollari, seconda solo a Serena Williams nello sport femminile) perché consumando record è diventata anche un fenomeno di massa negli Stati Uniti, con persone disposte a farsi in media 200 chilometri (come ha raccontato Andrea Beltrama su Ultimo Uomo) per assistere alle gare di Iowa, una squadra modesta trasformata in una potenza. I numeri, però, non bastano a raccontare una figura di culto che è stata già omaggiata dal parlamento statale con un «Caitlin Clark Day» il 22 febbraio, suo numero di maglia, e con una statua di burro a grandezza naturale alla fiera dell’Iowa, onoreficenza non da poco nella sua terra.

Domenica, nell’ultima gara casalinga della stagione regolare, aveva bisogno di segnare 18 punti contro la grande rivale Ohio State per superare la vecchia leggenda della Nba Pete Maravich, «un’altro giocatore rivoluzionario» come lo ha definito la Ncaa, la lega del basket universitario, facendo un complimento anche a lei. Ci è riuscita già nel primo tempo, a 0,3 secondi dalla sirena, finendo poi la gara con 35 punti, 6 rimbalzi e 9 assist. Già, gli assist: Clark è anche il primo giocatore di basket a guidare la classifica dei marcatori e degli assist per quattro stagioni consecutive. Sarebbe potuta restare per una quinta stagione, grazie a una deroga dovuta al Covid, per far ingrassare ancora i propri record: invece giovedì ha annunciato che se ne andrà nella Wnba.

«A pensarci è incredibile», ha detto domenica, dopo essere arrivata a 3.685 punti in carriera — 28,3 di media in 130 partite, glie ne restano ancora un massimo di nove da disputare se arriverà in finale Ncaa— e aver lanciato l’idea di un nuovo soprannome: «Ponytail Pete», ovvero «Pete coda di cavallo» in un ovvio omaggio a Maravich. «Onestamente, se me lo avessero detto prima dell’inizio della mia carriera, ci avrei riso su: sono sempre stata brava a segnare, ma non penso che la gente si renda conto di quanti giocatori incredibili siano passati prima di me e siano stati in grado di segnare così tanto per squadre fortissime». Nessuno, però, aveva mai segnato quanto lei.

Corriere della Sera, 4 marzo 2024 (newsletter AmericaCina)

Nikki Haley vince le primarie repubblicane a Washington, per Trump sconfitta attesa

Nikki Haley ha vinto le primarie repubblicane a Washington, ottenendo nella capitale americana il primo successo contro Donald Trump e un bottino di 19 delegati. Quella di Haley è una vittoria ininfluente nella corsa alla nomination conservatrice — l’ex presidente ha vinto ovunque e ha un enorme vantaggio in termini di delegati: 247 a 43 — ma anche di portata storica: l’ex governatrice della South Carolina è la prima donna a vincere una primaria nella storia del partito repubblicano. La corsa di Haley, tuttavia, potrebbe terminare con il«Super Tuesday» di martedì, quando si recheranno alle urne gli elettori di 15 Stati e delle Samoa americane, territorio non incorporato del Pacifico, che assegneranno un totale di 874 delegati, un terzo di quelli in palio in queste primarie.

A Washington Haley ha ottenuto il 62,9% dei voti, contro il 33,2% di Trump: una affermazione larga quanto attesa, considerando lo scarso sostegno di cui gode l’ex presidente nella capitale americana, 712 mila abitanti e appena 23 mila elettori repubblicani registrati. Qui nel 2020 il tycoon vinse senza rivali, essendo in corsa per la rielezione, mentre nel 2016 arrivò terzo dietro Marco Rubio e John Kasich con appena 391 voti. Domenica, stando a quanto dichiarato dai funzionari del partito, si sono recati alle urne al Madison Hotel soltanto 2.035 elettori e hanno scelto in larga maggioranza l’ex ambasciatrice all’Onu, che tuttavia non era nella capitale a festeggiare il suo primo successo ma in Maine a fare campagna in vista del Super Tuesday.

«Non è sorprendente che i repubblicani vicini alla disfunzioni di Washington rifiutino Donald Trump e tutto il suo caos», ha commentato subito dopo la proclamazione del vincitore Oliva Perez-Cubas, portavoce nazionale della campagna di Nikki Haley. «È appena stata incoronata regina della palude», ha ribattuto Karoline Leavitt, portavoce della campagna di Trump, ricorrendo alla consueta definizione usata per gli intrighi politici della capitale americana. «È stata rifiutata sonoramente nel resto d’America, ma non dai lobbisti e dagli insider che vogliono mantenere lo status quo».

Corriere della Sera, 4 marzo 2024

Ucraina, Scholz rivela la presenza (poco segreta) della Nato a Kiev

La sortita di Emanuel Macron sul possibile invio di soldati della Nato in Ucraina è un segnale a uso interno ed esterno ma che non rappresenta una novità. L’alleanza ha già gli «scarponi sul terreno» e da lungo tempo, una presenza «segreta» solo per chi vuole crederlo. Anche perché non è stata neppure nascosta. I primi a muovere, molto prima dell’aggressione russa, gli americani, i polacchi e i baltici. In particolare, la Cia, fin dal 2014, ha rimesso in piedi l’intelligence di Kiev, ha fornito training e materiale per operazioni speciali. Con l’invasione l’agenzia, insieme al Pentagono, ha creato una catena di trasmissione per passare dati precisi e la collaborazione è stata rinforzata da una rete di «avamposti» costruiti con la tecnologia dell’agenzia.

Il New York Times ha parlato di 12 basi per lo spionaggio dove gli ucraini hanno ricevuto informazioni costanti. Il supporto, poi, è stato garantito in remoto con il pattugliamento di droni e aerei: rimasti nello spazio internazionale hanno alimentato una «linfa» fondamentale, specie per missioni di profondità in Crimea. Militari del 10th Special Forces si sono dedicati, insieme a colleghi di altri due Paesi (non rivelati) a sviluppare i corridoi di rifornimento bellico. E, infine, tra i tanti «volontari» accorsi ci saranno sicuramente membri di apparati, magari congedati e integrati da «civili» nella difesa ucraina.

I documenti svelati sul web dall’aviere statunitense Texeira hanno fornito persino una lista parziale sulla partecipazione diretta dei «consiglieri» occidentali: 50 britannici, 17 lettoni, 15 francesi, 14 americani e un olandese. Molti esperti, però, ritengono che i contingenti siano più ampi. Un alto ufficiale inglese ha rivelato l’impegno dei commandos di Sua Maestà (circa 350), alcuni dei quali hanno istruito gli incursori protagonisti dell’azione sull’Isola dei Serpenti e altri sarebbero andati oltre la fase della semplice assistenza.

La stampa di Parigi aveva raccontato il ruolo di un pugno di uomini della Dgse: con l’invio massiccio di armi — era la spiegazione — è necessario avere personale che renda tutto fluido. In realtà il personale transalpino non si è occupato solo dello scarico di camion. E a sostenerlo, in modo trasversale, è stato il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Ribadendo il rifiuto di spedire a Kiev i missili Taurus perché potrebbero essere usati per colpire Mosca, il leader ha alluso all’assistenza diretta alleata nell’impiego di vettori anglo britannici Scalp/Storm Shadow e nel raggiungimento dei target a lunga distanza.

A suo giudizio francesi e britannici sono in grado di esercitare un controllo sugli obiettivi mentre non è possibile per la Germania. La dichiarazione ha scatenato critiche in casa come tra i partner europei, ennesimo segnale di uno schieramento mai sufficientemente compatto.

Corriere della Sera, 2 marzo 2024 (pag 6 e pag 7)