Ripensando alle gambe esili dei giocatori che calcavano i campi da calcio fino a vent’anni fa, non ci verrebbe mai in mente di disegnarli come supereroi. I dribbling col baffo di Gigi Meroni e l’istinto di Paolo Rossi non erano accompagnati da fisici statuari, quanto piuttosto da corporature ordinarie. Così come l’urlo di Marco Tardelli a Spagna ’82 o le invenzioni di Roberto Baggio a Usa ‘94, lampi di classe nascosti in un corpo ancora umano. Anche all’estero i grandi campioni della seconda metà del Novecento non erano poi tanto diversi: i calciatori, al massimo, potevano somigliare a rockstar decadenti, il cui fisico avrebbe ceduto inesorabilmente attorno ai trent’anni. Ferenc Puskás non era noto per il fisico slanciato: in un pomeriggio nebbioso del novembre 1959, l’Ungheria affrontava a Wembley l’Inghilterra. Prima dell’incontro i suoi avversari, guardando con superiorità e probabilmente un po’ di ignoranza la sua pancia prominente, lo avevano definito «quel tizio basso e ciccione». Nonostante le rotondità, Puskás segnò due gol che permisero ai magiari di vincere per 6 a 3 e di divenire la prima squadra a sconfiggere gli inglesi nel loro stadio. L’olandese Johann Cruyff, direttore d’orchestra nel calcio totale di Rinus Michels e primo giocatore a vincere tre Palloni d’oro all’inizio degli anni ’70, era solito fumare venti sigarette al giorno. Smise nel 1991, a 44 anni, un giorno prima di essere operato al cuore per l’inserimento di un doppio bypass. Gli anni ‘80 furono il palcoscenico di Diego Armando Maradona, un genio basso e tozzo, con piedi mai visti prima.

A cavallo del nuovo millennio i fisici dei giocatori hanno cominciato a cambiare. Quei corpi slanciati, rotondi o mingherlini – semplicemente normali – si trasformarono seguendo l’evoluzione del gioco, sempre più veloce, più fisico, più potente. «Ero fuori dal tunnel degli spogliatori prima di una partita del Paris Saint-Germain, quando Zlatan Ibrahimovic mi è passato accanto. Era spaventoso», scriveva a gennaio Simon Kuper sul Financial Times. «Da vicino, l’attaccante svedese sembrava un supereroe: 1 metro e 95 d’altezza, un petto grande come quello di Pamela Anderson e uno sguardo famelico». In passato i giocatori sfruttavano doti tecniche fuori dal comune. Oggi all’abilità uniscono il lavoro fisico. Come dice Ibrahimovic, se hai il suo talento, il successo è una scelta: devi lavorare duro per ottenerlo. Quello che fanno i campioni di quest’epoca. Cristiano Ronaldo, per esempio, è calcisticamente arrogante proprio perché ha unito alla sua tecnica, il lavoro atletico. Oltre al fisico, alla trasformazione del calciatore in supereroe contemporaneo ha contribuito la comunicazione. Già nel 1996, Eric Cantona, pittoresco quanto straordinario attaccante francese del Manchester United, era per Nike il capitano di una squadra di campioni scesi nell’“Hell Trafford”, il teatro degli incubi, per sconfiggere i demoni emersi dalle viscere della terra e salvare il gioco del calcio. Con lui c’erano Jorge Campos, Thomas Brolin, Rui Costa, Figo, Ian Wright, Edgar Davids, Patrick Kluivert, Ronaldo e Paolo Maldini. Dopo le prime difficoltà della battaglia, fu proprio una scivolata dell’ex capitano del Milan – che nei secondi iniziali dello spot, timoroso, commentava: «magari sono amichevoli» – a dare il via all’azione che portò alla vittoria dei “buoni”, con quell’epico “au revoir” pronunciato da Cantona alzando il colletto, un gesto ripetuto per anni nelle piazzette e nei campetti di terra battuta di tutto il mondo.
Il messaggio comunicativo del supereroe pallonaro è progredito: oggi è difficile dire se i bambini e i ragazzi di tutto il mondo preferiscano al mantello di Batman e alle ragnatele di Spiderman la cresta di Stephan El Shaarawy o i muscoli di Cristiano Ronaldo. Sul web dilagano paragoni tra le stelle del calcio e i loro parenti a fumetti: Balotelli come Iron Man, Theo Walcott come Flash, il brasiliano Hulk come (ovviamente) Hulk. Il marketing e la pubblicità intercettano sempre le tendenze, le sviluppano, le raffinano, le consegnano evolute al pubblico. Così quest’anno, per i Mondiali brasiliani, Samsung ha costruito una nuova squadra di campioni per il lancio del Galaxy S5 con una campagna costruita attorno a una serie di spot virali che stanno invadendo il web. Qui il messaggio del supereroe è chiarissimo, anche visivamente. Perché la squadra non ha divise da gioco, ma una corazza speciale, che evidenzia i muscoli e che protegge dall’assalto dei nemici. Cioè degli alieni che, sbarcati sulla terra, hanno sfidato gli umani in una partita di calcio. «Può il fooball salvare il pianeta?», si chiedono nello spot i telegiornali terrorizzati, mentre astronavi enormi volteggiano minacciose sulle città e sugli stadi. In campo scendeno le stelle del pallone contemporaneo. Supereoi veri con sembianze di supereroi cinematografici. In realtà rappresentano l’umanità che attraverso la loro bravura e la loro tecnica non ha paura di nessuno. Sono Lionel Messi, Cristiano Ronaldo, Wayne Rooney, Stephan El Shaarawy, Iker Casillas, Radamel Falcao, Mario Götze, Oscar, Landon Donovan, Victor Moses, Aleksandr Kerzhakov, il coreano Chung Yong e il cinese Wu Lei, tutti assoldati da un preoccupato Franz Beckenbauer mentre giocano a freccette nei pub inglesi, sono dal tatuatore, dal barbiere o in garage a tagliare spesse fette di Jamón serrano. Tutti felici di rispondere alla convocazione nel primo spot, tutti carichi negli allenamenti nel secondo. Perché sanno di essere il meglio, la scelta del genere umano per proteggersi. Poi ci sarà la partita. «Our best, our bravest, our team», dice il primo spot. Un giornalista chiede a Beckenbauer: «Mister, sono il meglio, ma sono tutti centrocampisti o attaccanti. E la difesa?». Beckenbauer lo guarda strano, poi lo zittisce: «Perché vorresti difenderti?». Già, non è necessario. Anche stavolta, il calcio salverà il mondo.
Undici, n.1, Estate 2014

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