Fran Lebowitz è arrivata a New York nel 1969 e non se n’è più andata, un po’ come il protagonista di una vecchia leggenda metropolitana che ha aleggiato a lungo, sospinta dall’alcol, nei bar del Lower East Side: quella di un newyorkese che sosteneva di non aver attraversato per 10 anni i ponti o i tunnel che collegano Manhattan al resto d’America. In tutto questo tempo, Lebowitz, scrittrice che non scrive un libro da quarant’anni, attenta osservatrice dei tic newyorkesi, racconta di essere rimasta per lo più a casa, a pensare, leggere — ha una biblioteca da 11 mila volumi — oppure a parlare al telefono: leggendarie erano le conversazioni quotidiane con Toni Morrison, prima donna nera a vincere il Nobel per la letteratura nel 1993, con cui per quarant’anni ha parlato di tutto, ha litigato solo una volta (su Bill Clinton), ha «riso e fumato un sacco di sigarette» ed è andata a «un milione di party», come scrisse sul New York Times nel 2019, alla morte dell’amica.
Al di là del personaggio scorbutico e misantropo che si è costruita, infatti, Lebowitz — protagonista di Una vita a New York, documentario in sette atti diretto da Martin Scorsese e appena uscito su Netflix — adora la mondanità della sua metropoli e non se ne priverebbe mai, nemmeno all’apice di una pandemia di cui New York è un epicentro globale, e di una malattia che colpisce quelli come lei: in là con gli anni e fumatori. «Penso di essere il newyorkese designato», sosteneva ad aprile in un’intervista al New Yorker, alludendo al designated survivor, l’ultimo sopravvissuto, il ministro americano che durante le cerimonie ufficiali viene portato in un luogo segreto, pronto a subentrare al presidente nel caso di un attacco nucleare o un attentato. Ecco, nemmeno il lockdown potrebbe allontanare Fran Lebowitz, l’ultima newyorkese, dal suo quartiere. Anche perché, dice, «non penso che mi lascerebbero vivere da nessun’altra parte». Persino la mattina dell’11 settembre, dopo che le due torri crollarono e Manhattan fu avvolta da una polvere densa, grigia e, si sarebbe scoperto in seguito, letale, rifiutò di andarsene.
«Qualcuno mi chiamò e disse che sarebbe passato a prendermi per portarmi in Connecticut. Non potevo credere che ci fossero persone pronte ad andare via», diceva nell’intervista a Michael Schulman, che doveva essere una guida pratica all’arte dell’inattività durante il lockdown ed è diventata invece un manifesto, a cominciare dal titolo: «Fran Lebowitz Is Never Leaving New York». A un certo punto chiariva: «Un paio di persone mi hanno invitato nelle loro case di campagna, molto più sfarzose della mia, dove hanno anche l’unica cosa che vorrei avere: un cuoco, visto che non so cucinare. Potevo andare, ma avrei dovuto essere una brava ospite. Alla fine ho capito, molto meglio restare qua ed essere una pessima ospite».
Perché sa essere «davvero pessima »: dice di detestare tutto tranne dormire, fumare e leggere, eppure ha un rapporto con New York che va ben oltre le passeggiate occasionali per una sigaretta, durante le quali viene importunata dai turisti che le chiedono indicazioni. «Ho sognato per vent’anni di non vedere turisti a Times Square: ora finalmente non ci sono, ma non c’è nessun altro», dice a Schulman, il giornalista del New Yorker che recentemente è tornato a scrivere di lei tracciando i due archetipi del newyorkese: quello allegro e al passo con i tempi, digitale, che non necessariamente vivrà per sempre in città ma che nel frattempo se la gode; e quello scontroso, ancorato al passato, che si lamenta sempre — della metro, dei costi o della grandezza degli appartamenti — ma che non se ne andrebbe mai.
Della prima categoria, ad esempio, fa parte il candidato sindaco Andrew Yang, 46 anni, la bella novità delle primarie democratiche per la presidenza, l’imprenditore tecnologico che proponeva una sorta di reddito di cittadinanza e che si definiva «l’opposto di Donald Trump: un asiatico a cui piace la matematica». Yang è nato è cresciuto appena fuori città, a Westchester, è arrivato nel 1996 per frequentare la scuola di legge della Columbia University e ha un appartamento a Hell’s Kitchen, ma ha passato buona parte del lockdown nei sobborghi, preparandosi alla nuova campagna elettorale e a superare «un test di autenticità»: dimostrare cioè di essere un vero newyorkese. Della seconda categoria, Lebowitz è il simbolo. Nata a Morristown, New Jersey, un’ora di treno da Penn Station, è arrivata a New York che non aveva neanche vent’anni, dopo essere stata espulsa da scuola perché aveva una pessima influenza sui compagni e aver saltato il college. Ha lavorato come donna delle pulizie — «ero specializzata nelle veneziane», disse una volta — e tassista, prima di diventare a 21 anni columnist della rivista Interview di Andy Warhol, dove vergava «osservazioni sulla vita contemporanea» raccolte in seguito nei suoi due libri — Metropolitan Life del 1978 e Social Studies del 1981 — dopo i quali non c’è stato più nulla, giusto un racconto per bambini nel 1994, Mr. Chas and Lisa Sue Meet the Pandas.
«Scrivo a penna e così lentamente che, se lo facessi col mio stesso sangue, non mi farebbe male», diceva alla Paris Review nel 1993. Oggi su Amazon si trova soltanto una copia usata del primo libro, ormai così rara che è in vendita a 665 euro. Lebowitz però non è diventata un’icona perché vittima del più leggendario blocco nella storia della letteratura — molto newyorkese, è vero — o per la sua indolenza: da decenni si guadagna da vivere parlando in pubblico, offrendo opinioni velenose con uno straordinario sarcasmo. «Il suo lavoro consiste principalmente nell’essere Fran Lebowitz: una donna risoluta, scontrosa, prolissa e brillante, che non vede l’ora di dare la sua opinione tagliente su tutto», scrive Naomi Fry sul New Yorker, e Fran conferma nella serie, sequel peraltro di un documentario uscito nel 2010 per Hbo, Public Speaking: stesso regista, stessa protagonista, sempre in stivali da cowboy e giacca da uomo su misura. «Giudicare» dice nel secondo episodio «è diventata la mia professione».
Soprattutto, Lebowitz è l’essenza di quei newyorkesi d’antan che, alla pulizia sofisticata nata nell’era Bloomberg, preferiscono la sporcizia e i pericoli dei decenni precedenti, quando la 42esima strada non portava verso le luci di Times Square ma conduceva diritta a un inferno di prostitute, spacciatori, rapine e sparatorie. «Non mi interessava un luogo pulito e sicuro, io venivo già da un luogo pulito e sicuro», spiega a Scorsese, che la riprende in location sofisticate come il Panorama of the City of New York, la riproduzione in scala dell’intera metropoli realizzata per l’Esposizione universale del 1964 e conservata al Queens Museum, oppure il The Players, un circolo di teatro «member only» di Gramercy, fondato nel 1888 dall’attore Edwin Booth, il fratello minore di quel John Wilkes Booth che uccise Abraham Lincoln. Nella città in crisi, derelitta e pericolosa dei suoi vent’anni, Lebowitz sapeva trovare quella vibrazione che stimola la creatività, una pulsazione che è stata soffocata dai condomini che detesta, costruiti al posto delle vecchie townhouse, o dai miliardari russi, cinesi, europei che hanno accresciuto le diseguaglianze e che la pandemia ha fatto fuggire.
«Anche ai miei tempi la vita era complicata, ma oggi New York è irriconoscibile rispetto a quando ero giovane. Non penso che lo sarà di più alla fine di questa pandemia. Sarà semplicemente diversa», spiegava al New Yorker. «Dopo l’11 settembre ero in strada 24 ore al giorno, ero sopraffatta dalle cose che vedevo in giro per la città. Ora però è solo triste: certo, da un lato sei felice che non ci siano milioni di persone che ti vengono addosso mentre guardano l’iPhone, ma dall’altro è come trovarsi in un prato senza alberi. Anche se i prati non sono la mia cosa preferita: non ci sono i ristoranti». Amore e odio, come sempre, e alla base dei suoi contrasti interiori c’è l’eterna disputa sulla vera essenza della città. «Un vero newyorkese pensa che New York sia l’unica città al mondo dove si può vivere», sosteneva in un’intervista al Village Voice Milton Glaser, storico designer scomparso a giugno, che ha lasciato la sua impronta sull’immagine cittadina creando il celebre logo I ♥ NY e fondando nel 1968 il New York Magazine. Non potrebbe essere più d’accordo Lebowitz, eppure una volta disse che quel logo è servito all’allora sindaco Ed Koch per attirare turisti, e che quel magazine è stato l’inizio della fine.
«Avere una rivista che si chiama New York ha portato parecchi giornalisti a scrivere costantemente della città, in cerca di luoghi che altrimenti non avrebbero incrociato e che hanno finito per travisare: e così tutto è diventato accessibile al pubblico, e quindi noioso. Non autentico», si lamentava nel 2002 in un’intervista a Thomas Beller, fra i più longevi blogger cittadini, che da oltre vent’anni porta avanti il suo Neighborhood. «Ecco perché New York è così noiosa. Quando sono arrivata non era così». Nelle sue parole c’è sempre il rimpianto per la New York di un tempo, pericolosa e per questo stimolante, che pure Lebowitz ha sempre osservato da un’elitaria distanza di sicurezza. «La New York di oggi è fatta per attrarre persone a cui non piaceva New York», disse qualche anno fa a Jeremiah Moss, scrittore e attivista che documenta la triste metamorfosi della città nel suo blog Vanishing New York. La verità è che Lebowitz — come tutti i newyorkesi — ama la città per gli stessi motivi per cui la detesta. «Basterebbe una corsa in metro per far infuriare il Dalai Lama», dice a un certo punto a Scorsese, che scoppia in una risata travolgente come fa spesso per tutta la serie. Poi però racconta di quella volta che all’alba ha incrociato nell’atrio del palazzo un vicino che tornava dalla palestra. «Mi ha visto con le valigie e mi ha chiesto se me ne andassi in vacanza», ricorda. «Ma se mi vedi nella lobby con i bagagli, vuol dire che vado a guadagnare, non a spendere. Io i soldi li spendo solo qua».
Sette, 12 febbraio 2021 (pagina 22, pagina 23, pagina 24, pagina 25, pagina 26, pagina 27)